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Ultra Trail Mont Blanc – Il racconto

L’alone mitico che circonda l’Ultra Trail Mont Blanc viene raccontato da Chersogno (Paolo Rovera), che oltre ad aver fatto una grande prova atletica, si dimostra un grande scrittore, esprimendo ciò che vuol dire per un essere umano confrontarsi con la natura, con gli altri e con se stesso, nella più antica delle attività, correre e camminare per spostarsi da un luogo all’altro. Un viaggio anche interiore sul perchè un uomo si voglia misurare con una prova di questo tipo, i retroscena, le emozioni, il sudore, la polvere, la fatica, le lacrime.  

Il mio UTMB 2008

di Paolo Chersogno Rovera

Il
Tour du Mont Blanc è un itinerario turistico permanente che viene effettuato a
piedi o in mountain bike in più tappe (generalmente 6 o 7 se a piedi)
pernottando nei vari rifugi o centri di accoglienza che si trovano lungo il
cammino.

Qualche
tempo fa a qualcuno è venuto in mente di organizzare una gara di corsa
sull’intero tragitto, da compiere nel tempo massimo di 46 ore. E così da sei
anni a questa parte migliaia di appassionati ultramaratoneti provenienti da
tutto il mondo si catapultano a Chamonix attratti dall’idea di partecipare a
quello che viene definito il campionato mondiale dell’ultramaratona in
montagna.

A
dire il vero era già stata organizzata un’edizione negli anni ’80, ma essendo
morto in quell’occasione un concorrente si era deciso di lasciar perdere.

I
numeri parlano chiaro: Ultra Trail Mont Blanc 166 km, 9400 metri di dislivello,
tempo massimo 46 ore.

Ma
di che pasta sia questa gara te ne rendi già conto al momento dell’iscrizione.
Per iscriversi all’UTMB infatti bisogna essere bravi e fortunati.

Bravi
perché ci si deve qualificare portando a termine una o più gare (a seconda del
punteggio che attribuiscono) facenti parti di un elenco ben preciso fornito
dagli organizzatori di competizioni “folli” sparse per il mondo. Sono
prevalentemente trails da oltre 100 km con almeno 4000 mt di dislivello oppure
gare a tappe durissime in condizioni estreme (per me ad esempio era valsa la
Marathon des sables del 2006).

Fortunati
perché, pur avendo i requisiti di qualificazione, bisogna sperare nel sorteggio
oppure sperare di riuscire a connettersi sul sito internet della manifestazione
nell’unico giorno di gennaio in cui si aprono (e chiudono immediatamente dopo
pochissimi minuti) le iscrizioni. La gara è a numero chiuso per cui 2500 persone
partiranno e circa altre 8000 (ottomila, sì, altri ottomila pazzi nel mondo che
vorrebbero massacrarsi) vedranno accantonare la loro richiesta. Io sono stato
sorteggiato. Bene, ho pensato, vuol proprio dire che la devo fare.

Con
la neve e la temperatura sotto zero l’estate sembra lontanissima e non è il
caso di preoccuparsi, ma sette mesi volano senza che me ne accorga e mi ritrovo
così venerdì 29 agosto alla partenza dell’ UTMB 2008.

Sono
con Giulio e Silvio, con i quali ho fatto il viaggio in macchina. Essi hanno
già parecchie esperienze di ultratrail ed hanno le idee ben chiare sul da
farsi.

Essendo
alla mia prima esperienza in una gara del genere e secondo me neanche troppo
allenato (è appena da aprile che corro in montagna ed al massimo l’ho fatto per
cinque ore… ma qui non basterà un giorno intero!), il mio obiettivo non può che
essere quello di arrivare nel tempo massimo per conquistare così il diritto
eventualmente a reiscrivermi; se ne varrà la pena, proverò ad allenarmi e a
preparare seriamente un’edizione futura, in caso contrario lascerò perdere, ma
avrò comunque vissuto un’esperienza indimenticabile e in ogni caso arricchente
(che alla fine è la cosa più importante). Sono assalito da dubbi di ogni tipo:
mi sarò allenato abbastanza, avrò fatto i lunghi necessari, lo zaino reggerà (è
vecchissimo)… ma il peggiore è sui bastoncini. Occhio e croce saremo il 5% a
non averli. Tutti ne riconoscono l’utilità ma io ho sempre corso senza e non me
la sento di mettermi a sperimentare proprio nel giorno più importante.

La
paura di non farcela è tanta ma è anche il sale di questa manifestazione. Mi
viene in mente una frase che lessi sulla bicicletta di un irlandese alla
partenza della Parigi-Brest-Parigi del 2003: “Senza l’incertezza del fallimento
non ci può essere il successo”. E qui l’incertezza è davvero enorme, basta
pensare che statisticamente più della metà dei pur qualificati concorrenti non
ce la farà.

Noto
che tutti hanno una copia del percorso con vicino le tabelle dei tempi di
passaggio ai vari controlli che si sono prefissati di rispettare. Io non ho
fatto calcoli di alcun genere, l’unica strategia che ho è quella di cercare di
arrivare al primo sentiero in salita (dopo circa 8 km) abbastanza avanti come
posizione per non rimanere imbottigliato, poi andrò a sensazione. Peccato che
circa 2500 persone abbiano avuto la mia stessa idea e mi sia toccato faticare
molto più del previsto per riuscire nel mio intento.

Ma
ormai manca poco e i dubbi è meglio farseli passare.

Alla
partenza l’eccitazione è massima, gli organizzatori al microfono per circa
un’ora incitano i partecipanti e dagli altoparlanti si diffonde il suono di una
canzone solenne, da gladiatori. E’ la colonna sonora di “ The Conquest of
Paradise” di Vangelis che mi rimarrà impressa e che mi risuonerà nella testa
per l’intera durata della gara. Una particolare sensazione mi pervade: quella
maledetta bestia che ti prende dentro, difficile da definire. In Francia la
chiamano “adrénaline”: tensione, emozione, rabbia, ansia, un cavallo indomabile
che ti percuote dentro, ma che, se riesci a disciplinare, ti porta dappertutto.

Si
parte tra la folla festante e si corre. Fin troppo! Cerco di tallonare l’amico
Silvio che sembra partito come sparato da una fionda. In breve raggiungerà il
gruppetto di Olmo, mentre io rimarrò indietro di circa 200 mt. E’ interessante
notare che dietro al pluricampione sessantenne Olmo si sia formato un folto
drappello ma che nessuno osi superarlo (anche perché, se il vincitore delle due
ultime edizioni sta correndo a quella velocità, come possono pensare coloro che
di sicuro non potrebbero vincere la corsa di stare lì o addirittura
superarlo?). Anche io, pur essendo più indietro, mi rendo conto di essere fin
troppo avanti e di aver già speso parecchio, ma per fortuna inizia il sentiero
e ora potrò andare a sensazione. E che sensazione! Tanto per gradire 7 km con
780 mt di dislivello in salita, prevalentemente su piste da sci. A sinistra
ammiro sua maestà il Bianco e mi sento quasi mancare al pensiero di doverlo
circumnavigare tutto. Ma non ho troppo tempo per distrarmi ad osservare il
panorama… inizia la discesa, che invita a lasciarsi andare, ma in cui dovrò
cercare prevalentemente di salvare le gambe. Rischio di cadere per ben due
volte scivolando sull’erba, così decido di rallentare perdendo qualche
posizione. Ma è meglio così, l’UTMB non si può vincere nella prima discesa, ma
di sicuro la si può perdere (e per vittoria intendo il raggiungimento del
proprio obiettivo personale). Arrivo al primo rifornimento, nel paesino di Saint-Gervais,
dove bande musicali e due ali di folla assordante mi fanno venire i brividi. Di
gare ne ho già fatte tante e di paesi in festa ne ho già visti, ma la pelle
d’oca così non l’avevo mai avuta! Hanno persino montato una mega-passerella
sopraelevata per permetterci di attraversare lo stradone. Tempo di riempire il
camel bag d’acqua (che dopo più di due ore di corsa si era prosciugato) di
farmi una sana bevuta di coca cola, di prelevare qua e là qualche “cibanza”
dalla tavolata imbandita per veri gourmands, e riparto per 10 km di saliscendi
(il cosiddetto mangia-bevi), tendenti però alla salita, che mi portano al paese
di Les Contamines. Nel frattempo si è fatto buio pesto ed ho provveduto ad
accendere la lampada frontale. Da qui partono 13 km di salita che ci porteranno
al Col du Bonhomme (colle del buon uomo o del “bunòm”, come diciamo noi in
piemontese, e mi rende bene l’idea). Ora più che correre cerco di camminare
svelto. A circa metà salita raggiungo Silvio e questo mi dà morale, perché
significa che sto andando bene. Decido di proseguire con lui, almeno facendoci
compagnia la notte sembrerà meno lunga. Ad un tratto mi volto ed è uno
spettacolo incredibile vedere la lunga fila indiana di lucine che ci seguono e
che mi danno l’idea di come sia ripida la salita e di come si prosegua tutti
piuttosto lentamente. Poco prima dello scollinamento Silvio mi chiede se abbia
notato la stella cadente che lui ha visto, ma sono troppo impegnato a guardare
dove metto i piedi e gli rispondo di no, però il desiderio lo esprimo lo
stesso. Superati i 2479 mt della Croix du Bonhomme inizia una discesa tecnica,
ripida e parecchio fastidiosa per i continui canali d’acqua che scendono dal
ghiaccio. Silvio in discesa va più forte e decido di lasciarlo andare, anche
perché il ginocchio destro inizia a far male (accidenti, penso, dopo appena 40
km di gara è troppo presto, lo sapevo che nelle ultime due settimane non avrei
più dovuto correre in discesa…)

In
qualche modo arrivo a Les Chapieux. Anche qui bella atmosfera, parecchia gente
a tifare e pure uno stand della Petzl per l’eventuale cambio gratuito delle
pile.

Intanto
50 km se ne sono andati e ormai da un pezzo sono entrato in quella condizione
che ho sperimentato più volte nella corsa in montagna e che definisco della “fottuta
speranza”. E’ quella particolare fase in cui nei brevi tratti che affronti di
pianura speri che arrivi presto la salita per poter smettere di correre e
iniziare a camminare, quando sei in salita speri che arrivi presto la discesa
per poter rifiatare e quando finalmente sei in discesa le gambe fanno male e
speri che finisca subito e ricominci il piano… e così via per tutta la durata
della gara, non sai mai di cosa consolarti e l’unica cosa in cui sperare
veramente è che finisca tutto prima o poi.

Comincia
una salita di 10 km che porterà al Col de la Seigne (2516 mt) per entrare in
territorio italiano. In salita vado bene e recupero parecchie posizioni. A dire
il vero uno mi supera  corricchiando;
l’esperienza della corsa mi ha insegnato ad ascoltare la respirazione mia, ma
anche quella degli avversari e mi rendo subito conto che è troppo affannato per
essere solamente al punto in cui siamo. Dopo una ventina di km lo ritroverò
infatti chino in preda a conati di vomito. Molto probabilmente la sua gara sarà
finita lì.

Non
è che io stia benissimo e sento che la pancia non è a posto, ed infatti, appena
scollinata la Seigne, ho un attacco di dissenteria che mi costringe a fermarmi
in bagno. Per fortuna è buio e non devo sbattermi più di tanto per trovare un
luogo “discreto” in cui accovacciarmi. Finora ho sempre sudato ed avuto caldo
ma mi è bastata questa “sosta tecnica” per capire come mai i volontari ai
servizi di ristoro indossino i piumini.

Dissenteria
però vuol dire disidratazione e conseguente calo delle forze. Maledizione non
ci voleva, dovrò cercare di mangiare un piatto di pasta caldo che mi rimetta a
posto quando arriverò a Courmayeur. La cosa bella di queste avventure così
lunghe è che si ha tutto il tempo per guarire di qualcosa e ammalarsi di qualcos’altro…
Si può magari partire con un raffreddore e arrivare ad esempio con un’unghia
incarnata oppure una caviglia gonfia, passando dal vomito oppure dalla
dissenteria. Basta non farsi prendere dal panico..

Al
termine di questa breve discesa ecco il rifornimento di Lac Combal. Qui
raggiungo Silvio e mi accodo nuovamente a lui per affrontare una salitella che
porta, con 500 mt di dislivello, all’Arète Mont Favre. Qui inizia una
lunghissima discesa che dovrebbe portarci a Courmayeur. Dopo pochissimi minuti sono
nuovamente costretto a lasciar andare Silvio, perché la pancia ha ripreso a
brontolare. Saranno le due soste in bagno che dovrò effettuare o il fatto che
siano già undici ore che si corre ma questa discesa sembra non finire più.
Finalmente ecco l’asfalto di Courmayeur, bene, ne approfitto per distogliere lo
sguardo che da troppo tempo è fisso al suolo per vedere dove si mettono i piedi
ed osservo il cielo stellato. Tempo due secondi e non mi accorgo di un
avallamento, inciampo e rotolo sull’asfalto sbucciandomi braccia e gambe. Mi
rialzo prontamente e pur sanguinante mi sembra che non sia successo niente.
Dopo tutta quella fatica è come se fossi anestetizzato e le normali botte non
fanno più alcun effetto.

Entro
nel palazzetto dello sport adibito a centro di accoglienza dei trailers
concorrenti e finalmente mi posso concedere ben due piatti di pasta fumante,
che desideravo tanto e… ripartire.

Sono
le sei del mattino ed inizio la salita al rifugio Bertone: quattro km di duro
sentiero che affronto in compagnia di uno spagnolo. Silvio nel frattempo ha
preferito fermarsi più a lungo al rifornimento di Courmayeur. Dal Bertone parte
un lungo traversone di 8 km di saliscendi che porta al rifugio Bonatti a
2020mt. So che queste ore della giornata sono a me favorevoli, il corpo si
risveglia dal torpore notturno e mi sento pieno di energie ed in breve, dopo 4
km di discesa ben corribile, arrivo al ristoro di Arnuva. Nonostante il
fastidio al ginocchio ho superato qualche concorrente in questo tratto.

Che
non sia messo tanto male in classifica me ne rendo conto ai ristori. Ero
abituato alle gare in bici dove quando arrivavo io rimanevano solo gli avanzi,
qualche crosta di formaggio, a volte nemmeno l’acqua. Ora trovo tavolate
imbandite di ogni ben di dio e mi sento quasi coccolato da tutte le attenzioni
che mi vengono rivolte. “Un italien, un italien!” dicono gli assistenti rivolti
a me. Vabbeh, penso, saremo 250 italiens… che avranno da stupirsi?
Evidentemente in quel momento non ne erano ancora transitati tanti…

Breve
sosta e poi via verso la Cima Coppi dell’UTMB ovvero il Grand Col Ferret a 2537
mt. Cinque chilometri di dura ascesa su sentiero erboso che ci portano in
Svizzera. Da qui so che dovrò scendere per un bel po’ e non è una bella notizia
perché il ginocchio destro fa sempre più male e come se non bastasse, dovendo
utilizzare maggiormente la gamba sinistra, ho finito per affaticarne i muscoli
tibiali con conseguente forte infiammazione nel punto in cui confluiscono nella
caviglia. Ad ogni passo arriva una “puntura”, ma nonostante tutto riesco ancora
a correre.

Purtroppo
però ho fatto male i calcoli ed il prossimo ristoro si trova sei chilometri
oltre il punto di controllo di La Peule che contrariamente a quanto credevo non
dispone di rifornimenti. Sei chilometri, anche se di leggera discesa, diventano
un’agonia se si è in piena crisi di fame. Oltretutto sono ormai le undici ed
inizia a fare caldo. Comunque riesco a 
raggiungere la seconda donna e quando finalmente arriviamo al sospirato
rifornimento di La Fouly vedo che lei non deve quasi fermarsi perché è
assistita dalla famiglia con tanto di marito che le ha preparato le giuste
razioni di cibo e quasi la imbocca e la figlia le ha già riempito il camel bag.
Invece io mi fermo perché devo assolutamente reintegrare e spegnere la spia
della riserva. Quando riparto sono un po’ appesantito e pur essendo
leggerissima discesa sono costretto a camminare per almeno tre o quattro minuti
per permettere al sangue di confluire nello stomaco affinché inizi il lavoro di
trasformazione del cibo in energia. Cominciano otto chilometri di falsopiano in
cui mi stupisco di come riesca ancora a correre, seppur lentamente, dopo
diciassette ore di gara. Quando corri per tante ore di seguito inevitabilmente
ti trovi ad affrontare tutta una serie di difficoltà di tipo fisico e
psicologico.

Correre
è notoriamente faticoso. L’uomo comune considera già un bello sforzo correre
per un’ora consecutivamente. Le stesse gare podistiche di un certo impegno
normalmente non vanno mai oltre le due, tre o massimo quattro ore, a seconda
che si tratti di mezza oppure di una maratona. Qualsiasi atleta allenato poi,
alla fine di una gara avrebbe generalmente ben poca voglia di continuare a
correre.

Come
si fa quindi a correre non ore, ma per più di un giorno intero ? Ci si adatta.
Con la mente e… con il corpo: le due entità sono in simbiosi. E’ una questione
di volontà, è essa che ti fa fare il salto. Certo il fisico sulle prime cerca
di resistere e ribellarsi, ma poi si rassegna e asseconda la mente.

Nei
pressi di Praz de Fort inizia un sentiero in salita immerso in una pineta. Sei
chilometri per arrivare al mega ristoro di Champex-Lac. Pur essendo un punto di
rifornimento strategico posto a 43 km dal traguardo e prima di tre salite “hors
category” decido di fermarmi il meno possibile, altrimenti le gambe
inizierebbero a fare troppo male. Inoltre un’ottima strategia di gara consiste
nel fermarsi poco ai ristori. In competizioni così lunghe non conta tanto
andare forte, conta andare sempre. Così la tattica ad ogni “revitaillement” è
ben precisa: mi faccio riempire per ben tre volte di Coca-cola il bicchiere
personale consegnatoci dall’organizzazione capiente 31 cl. Mentre bevo un
bicchiere alla volta mi riempio la sacca dell’acqua di riserva che mi servirà
per arrivare al ristoro successivo. Poi afferro tutto quanto mi passa alla mano
da mangiare: caldo, freddo, dolce, salato poco importa. Mangiare perdendo il
minor tempo possibile è una tecnica affinata come il correre stesso; così
ingoio pezzi di pane, salame, formaggio, banane, fette di torta con la velocità
di un kaimano. Serro le mascelle per un attimo, deglutisco e subito sono pronto
per il nuovo boccone.. Poi ancora un bicchiere di Coca-cola che mi aiuterà a
digerire il tutto (e sono quattro per un totale di almeno un litro che per
quindici rifornimenti a cui mi sono fermato fanno….. ecco perché non ho avuto
sonno, con tutta quella caffeina…) E riparto subito, camminando per un po’ di
tempo, altrimenti rischierei di vomitare e non appena sento che lo stomaco si
sistema  incremento il ritmo e riprendo
a correre.

Adesso
inizialmente la strada costeggia tutto il lago di Champex ed è bellissimo
ricevere gli incitamenti e gli applausi che mi vengono rivolti dagli svizzeri
appostati sulle proprie terrazze o nei dehors dei bar. Lasciato l’asfalto, c’è
una strada sterrata in discesa che ci porta all’attacco di una salita che alla
fine si rivelerà la più dura di tutte, quella che porta a Bovine. Saranno sì e
no tre chilometri, ma con 700 mt di dislivello tra radici e rocce, che in
alcuni punti mi costringono ad usare anche le mani modello arrampicata. E nel
pieno di questa salita chi ti trovo? Nascosto in mezzo alla vegetazione un
signore anzianotto con la tromba aspetta il passaggio di ogni concorrente e gli
suona la carica. ‘Sti franco-svizzeri sono proprio matti! –
penso tra me, dopo averlo salutato e ringraziato con un inchino. Ormai siamo
tutti sgranati ed il suono della tromba che accoglie il concorrente dietro di
me lo sentirò solo dopo parecchio tempo. Anche davanti non è che veda altri
concorrenti e mi sento un po’ a bagnomaria nella solitudine. La pendenza è
terrificante, lo sguardo è fisso a pochi centimetri da terra. La mente “mente”,
quando si è così affaticati e ti trovi a non pensare più a nulla. Cerchi di
trascinare il tuo corpo, un passo dopo l’altro, perché sai che non puoi
fermarti.

Ma
come tutte le cose terrene anche questo “muro” ha una fine, che si materializza
con una lunga spianata in cui posso riprendere il fiato. Scollinata Bovine,
devo affrontare sei km di discesa, durante i quali verrò raggiunto e superato
da almeno otto concorrenti. La caviglia fa malissimo e non riesco più a correre
come vorrei in discesa. Finalmente ecco il punto di controllo e ristoro di
Trient. Da qui ci sarà un altro colle da fare, con salita e discesa, quasi
fotocopia di quelle appena fatte. La salita al Col Catogne è un po’ meno dura
ma ormai le energie rimaste sono quelle che sono e anche la discesa verso
Vallorcine sarebbe più corribile se solo ad ogni passo non arrivassero le fitte
di dolore a caviglia e ginocchio. Proprio quando arrivo a Vallorcine mi
comunicano che Olmo si è ritirato. Mi cadono le braccia. Marco è un caro amico,
oltre che un atleta fortissimo che mi ha aiutato molto nella precedente
avventura, alla Marathon des Sables, quando ero atleticamente morto e lui, con
un trattamento reiki, mi rigenerò. Per tutti noi italiani è un orgoglio e per
me cuneese lo è ancora di più. Ad ogni punto di controllo chiedevo da quanto
era passato Olmo ed ero felicissimo di sapere che mi stava “suonando” con una
caterva di ore di vantaggio, perché speravo nella sua terza vittoria
consecutiva, anche perché nella camminata-allenamento che avevamo fatto insieme
ai primi di agosto mi aveva spiegato quanto ci tenesse e quanto avesse
preparato minuziosamente questa gara.

Da
Vallorcine parte l’ultima salita che inizialmente sarebbe pure corricchiabile
(se non si fosse doloranti), ma che dopo tre km si trasforma in una parete
verticale. Il sentiero va a zig-zag, ma la pendenza è davvero proibitiva.

Ormai
quasi in cima alla salita, con la spia della riserva accesa già da un pezzo,
ecco che mi  si para davanti a 5 metri
uno stambecco, che mi osserva perplesso. Oddio, se questo mi carica mi
rispedisce dritto a Vallorcine, penso tra me (evidentemente ero proprio alla
frutta per pensare una cosa del genere). Ma lui discretamente si è defilato.
Dovrebbe mancar poco alla cima ormai, si sta facendo buio e sento delle voci.
Ma una mi sembra di conoscerla… ma sì! questa è la voce di Rossella! Sono gli
amici della Dragonero! Mi avevano detto che sarebbero venuti a vedermi, ma
ormai avevo perso ogni speranza. Sono commosso e vorrei abbracciarli ma ho
talmente male che l’unica cosa che devo fare è cercare di arrivare il prima
possibile per far cessare il dolore e quindi non mi perdo troppo in convenevoli
(avrò modo all’arrivo di salutarli adeguatamente). Ora non si sale più, c’è un
lungo traversone sulle pietre che mi costringe ad un’andatura non regolare con
alternanza di passi corti e lunghi a seconda di come sono le pietre e questo
aumenta le fitte di dolore che arrivano alla caviglia. E’ frustrante vedere che
in questi tratti ,così come nelle discese, altri concorrenti mi superano, non
perché ne abbiano di più, ma perché sono meno doloranti e anziché zoppicare
riescono ad appoggiare i piedi in modo regolare.  Ma ora non sono più solo, “You’ll never walk alone” cantano i
tifosi del Liverpool all’Anfield Road ed inizio a canticchiarmela anch’io.
Anche se sono costretto a dir loro che potranno seguirmi solo da parecchia
distanza, perché il regolamento vieta di farsi accompagnare da chiunque non
iscritto alla gara. Arriva finalmente l’ultimo punto di controllo, un’ultima
bevuta di Coca e poi via verso gli ultimi 6 km che mi separano dal traguardo.
Sono 6 km di discesa che in condizioni normali mi farebbero ridere…
venticinque-ventotto minuti al massimo, cosa vuoi che siano sei km di discesa?
Ma in quelle condizioni diventano eterni. Oltretutto questa discesa è falsa
perché vedo le luci di Chamonix in fondo, ma sembrano rimanere alla stessa
altezza, non si scende mai! Percorro con rabbia questo sentiero, oltretutto
pieno di radici sporgenti, ad ogni passo c’è il  rischio d’inciampare… e finalmente, dopo mezz’ora, si inizia a
scendere veramente. Il sentiero man mano si allarga e diventa una strada
sterrata e poi…. Sì!! è asfalto, ci siamo, manca solo un chilometro!! In questo
chilometro metto tutto ciò che mi rimane, sono completamente “in trans” e le
gambe girano da sole. Sento nella mia fantasia la voce della memorabile
telecronaca di Galeazzi ai mondiali di canottaggio “non c’è più tempo per
morire…” e nei cinque minuti che impiego a percorrere questo ultimo km riverso
tutti gli allenamenti, la fatica, il sudore spesi per raggiungere questo
traguardo.

Nonostante
siano già quasi le undici e mezzo di sera Chamonix pullula di gente che mi
incita dietro le transenne e mi chiede il cinque. In questo momento Chamonix
sta urlando solo per me (anche perché quello davanti è arrivato 8 minuti prima
e quello che ho dietro arriverà dopo 5 minuti) e non mi sembra vero. Si
accendono le casse e parte la solita musica che sentivamo già alla partenza… Di
gare ne ho fatte tante ed agli arrivi ai traguardi sono abituato, ma questo non
ha eguali e sono sicuro che per tutta la vita, ogni volta che lo ricorderò, mi
verranno i brividi. Appena varcata la finish line uno dei capi
dell’organizzazione mi abbraccia e mi chiede “italien, c’est la première fois?”
ed io gli rispondo “la première … e la dernière!!”. Ma poi vedendo la sua faccia
delusa gli sorrido e lo abbraccio dicendo che scherzavo.

Poi
l’abbraccio liberatorio con Fede, Rossy e Giorgia. Sento in quel momento di
voler loro un gran bene e mi viene subito da dir loro: “NON FATELA MAI!! Questa
non è una gara, è un massacro, in cui non vince il più forte, ma chi si rompe
di meno. Non è una questione di fatica, tant’è che io mi sento ancora forte
come un leone e avrei energie da vendere, ma di usura fisica.”

Infatti
solo 1200 concorrenti riusciranno a tagliare il traguardo e scoprirò con molto
dispiacere che anche Silvio e Giulio saranno stati costretti al ritiro. Certo
per arrivare tra i primi bisogna avere ottime qualità fisiche e mentali, ma non
basta, bisogna anche essere fortunati perché una semplice storta potrebbe
compromettere tutto.

Questa
è davvero una gara in cui l’unica cosa che sai è quando parti. Poi inizia un
viaggio aleatorio, un’avventura in cui non saprai mai fino alla fine SE, QUANDO
e COME arriverai.

Per
la cronaca ho impiegato 28h57’27”  per
percorrere i 166 km di gara e alla fine risulto essere sessantesimo assoluto e
quarto degli italiani. So perfettamente che il buon piazzamento è dovuto al
fatto che molti che mi avrebbero preceduto sono stati costretti al ritiro, ma
non importa, per me, che puntavo ad arrivare nel tempo massimo, è come se
avessi vinto. Oltretutto in  prove come
questa la competizione non è contro gli altri ma contro se stessi. Come diceva
Confucio “superare gli altri è avere la forza, superare se stessi è essere
forti”.

Non
so se mi sia superato, però sono molto soddisfatto. Ma come tutte le
soddisfazioni, le gioie, ma anche le testardaggini, c’è un prezzo da pagare. Ho il ginocchio destro e la caviglia sinistra parecchio malandati e probabilmente
per molto tempo non riuscirò più a correre e quindi a fare una delle cose che
mi piacciono di più. E’ stato giusto ridursi così? Ne è valsa la pena? Ha avuto
un senso mettere a repentaglio la propria incolumità fisica? E per cosa poi?
Non ho salvato il mondo né aiutato qualcuno che aveva bisogno, ho solo e
semplicemente fatto una gara… per quanto bella possa essere. Il dubbio rimarrà
per molto.. o forse solo per il tempo che caviglia e ginocchio si sgonfino e
possa riprendere. Poi forse la colpa non è tutta della gara. Forse la mia
muscolatura non ha ancora avuto tempo ad adattarsi alla corsa in montagna,
oppure non ero allenato abbastanza, o forse sono solo troppo pesante per questo
tipo di gare con discese lunghe. Però se è vero che anche chi la vince impiega
almeno venti giorni – un mese a riprendersi (almeno così mi diceva Olmo),
qualcosa vorrà pur dire.

Di
sicuro questa gara me la ricorderò per tutta la vita. Mi basta chiudere gli
occhi per sentire gli applausi della gente, ovunque e a qualsiasi ora pronta a
dirci BRAVO!, SUPER!, a suonar tamburi o campanacci di mucche. Il pubblico mi
ha colpito anche di più rispetto alla pur blasonata Maratona di New York che
feci nel 2004. Penso che i francesi, anche se spesso ci stanno un po’
antipatici, abbiano molto da insegnare in fatto di sportività a noi italiani
malati fino all’esasperazione del “solo-calcio”.

Ancora
adesso, dopo che sono trascorsi già alcuni giorni, ho negli occhi troppe
immagini, troppe emozioni, troppi ricordi da mettere a fuoco.

Ci
sono certe esperienze che lasciano il segno nelle persone. La Marathon des
Sables mi aveva profondamente cambiato, segnando uno spartiacque tra il Paolo
prima e dopo il deserto. Altrettanto penso di questa avventura. C’è un Paolo
diverso dopo l’UTMB. Un Paolo più consapevole di sé stesso e delle sue
potenzialità, ma forse anche un Paolo più maturo, che per la prima volta ha
capito quanto sia importante conservare l’integrità fisica a discapito di
qualunque altra cosa.

Giancarlo Costa

Snowboarder, corridore di montagna, autore per i siti outdoorpassion.it runningpassion.it snowpassion.it e bici.news. In passato collaboratore della rivista SNOWBOARDER MAGAZINE dal 1996 al 1999, collaboratore della rivista ON BOARD nel 2000. Responsabile tecnico della rivista BACKCOUNTRY nel 2001. Responsabile tecnico della rivista MONTAGNARD e MONTAGNARD FREE PRESS dal 2002 al 2006. Collaboratore della rivista MADE FOR SPORT nel 2006.