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Il racconto dell’Ecomaratona di Cuneo

Con questo singolare racconto sull’Ecomaratona di Cuneo di
domenica scorsa, inizia a collaborare con runningpassion Giancarla Agostini,
che come indica il titolo del suo libro, si muove per il mondo su 2 piedi e su 2 ruote. Runner, biker e
soprattutto narratrice di un modo di vivere le gare come un’avventura
introspettiva e non solo come il trasporto di un pettorale dalla partenza
all’arrivo.

Nell’immensa moltitudine dei miei inutili neuroni bacati,
ce n’è uno, uno solo, più o meno funzionante, l’unico che lotta strenuamente,
nonostante tutto, per mandare avanti la baracca. Credo di poter dire grazie a
quell’unico piccolo eroe, se ho superato più o meno indenne il traguardo dei 28
anni. Oggi proprio lui, il neurone solitario, ha avuto un moto d’orgoglio, ha
ingaggiato una fiera battaglia contro il nemico, in netta superiorità numerica
e molto agguerrito; addirittura, inaudito, è arrivato ad un passo dalla
vittoria.

Già da qualche mese, da quando ho letto, non ricordo più dove, la notizia
dell’evento, ho deciso che non sarei mancata alla prima edizione della Maratona
di Cuneo, più precisamente, Ecomaratona del Parco del Gesso e Stura. Non ho ben
chiaro il concetto di ecomaratona, ma si tratta di un particolare
del tutto trascurabile; quel che so, per aver dato uno sguardo ad un volantino
che m’è capitato in mano qualche giorno fa, è che si correrà quasi solo su
sterrato e che ci sarà un po’ di salita, per la precisione, 425 m sulla tradizionale distanza di
42, 195 km della
maratona.
Solo da qualche giorno, però, intenta alla più o meno conscia ricerca del modo
migliore per aggiungere un tocco di follia alla banalità di una corsa a piedi,
ho elaborato il piano diabolico: perché non andare a Cuneo in bici? Andata e
ritorno, sono 120 km,
tutti in pianura, o meglio, in leggerissima salita perché Cuneo sta più in alto
di Carmagnola; tre o quattrocento metri che, su quella distanza lì, non si
sentono nemmeno. Questioni pratiche da risolvere: dove lascio la bici? Come
faccio a portarmi dietro l’occorrente per correre? Problemi esistenziali che
ribalto, via mail, all’organizzazione della Maratona. Mi rassicurano: la bici,
opportunamente legata presso gli impianti del Parco della Gioventù, dove avrà
luogo la consegna dei numeri e dove si troverà il quartier generale
della gara, dovrebbe essere al sicuro; per il resto, lo zaino potrà restare
anche lì, nei paraggi.

La mattana prende corpo giorno dopo giorno. L’entusiasmo è più forte dei dubbi,
e poi via: se vado a Cuneo con la bici più vecchietta, non me la toccherà
nessuno. Quanto allo zaino, conterrà solo gli indumenti da bici e le scarpe;
basta che mi porti dietro la roba più consunta che ho… E nemmeno un eventuale
furto sarà poi quella gran tragedia. L’unica circostanza che potrebbe
costringermi a cambiare idea è la nebbia: ovvio, si tratta di partire al
mattino prestissimo e sciropparsi buona parte del viaggio di andata al buio; la
visibilità è condicio si ne qua non, altrimenti ho la certezza di diventare
parte integrante del manto stradale, o del cofano del bolide di qualche
discotecaro ubriaco, ancor prima di Racconigi. E non si tratta di una
circostanza così improbabile, quella della nebbia voglio dire: purtroppo, già
qualche giorno fa ha fatto mostra di sé al mattino, una coltre grigia talmente
spessa da nascondere alla vista, dal balcone di casa, anche il palazzo accanto.
Ma sono fiduciosa. O meglio: resto fiduciosa, finché oggi, sabato, il neurone
non tenta il colpo gobbo. Giornata grigia ed uggiosa, me ne vado a correre in
collina, non ho troppa voglia di finire sotto il diluvio in bici; se ci finisco
a piedi, non me ne preoccupo. Però corro e penso… Ma è proprio il caso? Ma
sei sicura, Gian? Guarda che è una boiata… Metti che buchi o che ti capita
qualche guasto, rischi di saltare la Maratona; e poi la statale che porta a
Cuneo è già da suicidio con la luce del giorno. La bici, vai proprio a
cercartelo, il furto. E se poi non trovi un posto ove lasciare lo zaino? Che
fai, te lo scarrozzi appresso per tutta la gara? Insomma, non è meglio che
lasci perdere?
Il neurone guadagna terreno. Anche durante il sonnacchioso pomeriggio speso a
leggere qualche arretrato de Il Sole 24 Ore, non perde occasione per insinuare
il dubbio. Ma sei proprio certa che hai voglia di alzarti alle quattro? Ma và,
sicuro, che domani c’è la nebbia, con tutta l’acqua che è venuta giù la notte
scorsa. Ormai tranquillo, il marrano, ha la vittoria in pugno. Peggio per
lui…

Se davvero ambisci ad una meta, troverai una strada. Altrimenti, troverai
una scusa. Anche di questa citazione non ricordo la fonte, ma non ha
importanza. L’esercito dei neuroni bacati ha incassato il colpo ed è già
passato al contrattacco. Che fai, Gian, ti tiri indietro? Rinunci? Senza
nemmeno averci provato? E che essere ignobile vedrai nello specchietto
retrovisore, domani mattina, un attimo prima di avviare il motore?

Allora buona notte mamma, ci sentiamo domani
Buona notte, domani che macchina prendi?
Nessuna, mamma… Vado in bici
In bici?
Sì in bici, ricordi, te l’avevo detto no? Ti avviso quando arrivo
là. Una banale informazione per lei, che ormai è abituata a qualsiasi
follia, ma soprattutto un impegno preciso per me stessa. Sono le otto e mezza
di sera, casco dal sonno, ma ho ancora un paio di incombenze da sbrigare.
Preparo le luci anteriori e posteriore per la bici, la frontale, le cavigliere
ed il giacchino rifrangenti. Prendo lo zaino, ci metto dentro un asciugamano,
la divisa per correre, le scarpe da montagna – visto che si corre su sterrato,
userò quelle – una maglietta di ricambio per il ritorno in bici, e poi lo
zainetto più piccolo, con dentro una giacca, un po’ di miele, il telefonino ed
il portafoglio, da tenere sulle spalle in gara. E’ uno zainetto minuscolo,
comodissimo, e mi permetterà di non abbandonare portafoglio, chiavi di casa e
telefonino. In più, nel borsello da manubrio metto la catena con il lucchetto,
almeno tre chili di metallo che spero basti a dissuadere i malintenzionati, o
bongustai, interessati alla mia due ruote. Prima delle nove sono a nanna, con
le gambe un po’ inchiodate dai ventidue km di corsa su asfalto di questa
mattina: lo so, non è l’idea più intelligente che si possa mettere in pratica
il giorno prima di una maratona, ma tant’è, sarei diventata idrofoba senza la
mia dose quotidiana di fatica.

Il risveglio alle quattro è meno traumatico del previsto. Schizzo giù dal
letto, sotto l’occhio assonnato ed anche un po’ infastidito di Skipper, che
approfitta immediatamente per estendersi anche al mio posto, il suo
meraviglioso tartufone ben piazzato sul mio cuscino. Mi precipito alla
finestra, combattuta tra la speranza – di trovare nella nebbia una validissima
scusa – ed il terrore – di mandare all’aria il mio piano diabolico e tutta la
fatica che ho speso per convincermi. Nulla: si vede tutta la fila dei lampioni,
luce nitidissima fino in fondo alla via. Il cielo è nuvoloso, niente stelle, ma
non c’è aria di pioggia. Bene Gian: hai voluto la bicicletta, mo’ pedali.
Saresti perfettamente in tempo per cambiare idea e tornare a nanna, recuperando
ancora un paio d’ore di sonno… Ma non lo farai.
Colazione spartana: pane e Nutella, ma poco; caffé con miele, tracannato
malvolentieri. Sono agitatissima, non certo per la gara; è il viaggio che mi
mette ansia. Voglia di partire, paura di buttarmi là fuori. Mentre ci penso,
vado su e giù da casa alla cantina, per preparare le ultime cose, con gran
gioia dei vicini, del resto ormai avvezzi al mio nottambulismo. Pantaloni ¾,
due magliette con le maniche corte, il giacchino girato al contrario, per fare
anche da scudo antivento sul torace; manicotti, guanti, scarpe vecchie,
frontale in testa. Chiudo il cancello, salto in sella: si parte.

Manca poco alle cinque e mezza: si sente qua e là il motore di qualche auto, il
fruscìo del passaggio in lontananza. Le vie sono illuminate di luce gialla dei
lampioni, tanto che quasi non sembra d’essere ancora nella notte: ma non
bisogna che mi lasci ingannare; so bene che, appena fuori città, sbatterò il
naso contro la mia cronica difficoltà di vista notturna. A poco servono le
luci, anche potenti… San Giovanni, la Bossola, la rotonda illuminata a
giorno; Carmagnola è alle spalle, ora si parte davvero. Ho il cuore che
scoppia: non è la fatica, è l’inquietudine che sempre mi assale quando viaggio,
in bici o a piedi, al buio. Forse è il neurone saggio che tenta il tutto per
tutto, che mi fa sentire auto inesistenti che arrivano veloci alle mie spalle,
che mi irrigidisce i muscoli nel timore di saltare in una buca o su un ostacolo
che non sono riuscita a vedere. La campagna è nera e silenziosa; davanti a me,
il cerchio di luce della pila frontale serve solo a darmi l’illusione della
vista. Eppure devo pedalare, sbrigarmi il più in fretta possibile, anche se
questo non varrà ad anticipare il sorgere del sole. Prima delle sette, non ci
sarà luce.
Con il cuore in gola e le mani ben salde sul manubrio, nonostante lo zaino
enorme che punta in modo del tutto asimmetrico sulla schiena, mi costringo a
procedere per piccoli traguardi intermedi. La rotonda della circonvallazione di
Racconigi: adesso qui, sulla circonvallazione appunto, posso contare per
qualche km su un asfalto liscio, quasi perfetto. Peccato solo non avere gli
abbaglianti, per restituire la cortesia a quei maledetti, pochi ma dannosi,
che, incrociandomi in auto, nemmeno si sognano di abbassare i fari. Per lunghi
istanti, finché non mi passano accanto, io resto cieca, senza poter vedere
nulla di quel che c’è davanti a me. Anche la discesa dal cavalcavia diventa un
brivido… E non di freddo: se c’è un problema che questa mattina proprio non
si pone, è il freddo.

Dai Gian, è vero che è buio pesto, ma in fondo è quasi l’alba. Devi solo
riprendere l’abitudine al fatto che il sole sorge tardi, non è più la pacchia
di giugno. Le auto parcheggiate, di tanto in tanto, a bordo strada in luoghi e
situazioni equivoci… Tira dritto Gian, non guardare. Strani incubi nascono
dalle tenebre; ho la sensazione che tra poco qualcuno mi affiancherà in auto,
minacciandomi, Tu non hai visto niente, chiaro?. Chi, io? Io
non c’ero, e se c’ero, giuro che dormivo!.
L’asfalto tra Racconigi e la rotonda di Cavallermaggiore è il mio spauracchio
peggiore. Tutto buche, fessure e gobbe, rattoppi fatti male e rattoppi dei
rattoppi, nessuno che abbia nemmeno lontanamente pensato di spianare un po’ la
strada. Non sempre posso scegliere la traiettoria; qualche auto in giro c’è,
anche se, così, a naso, mi sembra di essere ben visibile, visto lo sconcerto di
chi rallenta a dismisura prima di incrociarmi o superarmi. Quindi, a volte mi
tocca affrontare di punta l’ostacolo, sperando di non bucare e, possibilmente,
non cadere. Cavallermaggiore, il piazzale della discoteca Evita: ci sono solo
più alcune auto ordinatamente parcheggiate nei pressi dell’ingresso; credo che
ormai dentro restino solo più i dipendenti. Troppo tardi, o troppo presto,
anche per il più incallito degli animali da pista da ballo.

Nel rettilineo prima di Savigliano, un momento di panico: i fari di un’auto
vengono verso di me, in lontananza… E poi si spostano pericolosamente verso
la mia corsia: urca, qui son fatta… Invece no, il marrano imposta la curva e
svolta in una viuzza alla sua destra. Scampato pericolo, una dose di adrenalina
in più per le gambe. La città mi elargisce dieci minuti di risparmio della luce
frontale, grazie a quella dei lampioni; qui c’è già un po’ di fermento, qualche
auto in più.. Ancora buio pesto e senza stelle, compagnia dell’interminabile
rettilineo fino a Genola: la punta di una delle scarpe da corsa ha trovato
alloggio proprio in mezzo a due costole… Ma non ho tempo di fermarmi a
sistemarla, e nemmeno voglio interrompere questo precario equilibrio di sensi e
di mente che ho faticosamente raggiunto.

Oltre Genola, il cielo mi sembra appena un po’ più grigio. Vuoi vedere che…
Sta per diventare chiaro?

Raggiungo Levaldigi quando il campanile segna le sette in punto; qui metto per
la prima volta il piede a terra, visto che non mi pare il caso di bruciare il
semaforo rosso su un incrocio cieco. Sfilo poi accanto all’aeroporto, mentre la
mia inquietudine pian piano se ne va via con il buio della notte. Ora la mia
unica preoccupazione è pestare sui pedali; devo arrivare a Cuneo entro le nove
e non si sa mai… Macino come un frullatore, 34xnonsocosa ma è la terzultima
coroncina verso destra; Centallo e l’infinito rettilineo successivo, che mi
ricorda un po’, fatte le debite proporzioni, gli infiniti stradoni che si
vedono nelle foto della RAAM, solo che là non ci sono i cartelli Vendesi
pere, mele, kiwi, e forse nemmeno le rotonde, chissà.

La Michelin, il cavalcavia, la zona industriale; punto decisa verso il ponte
basso. Lo spettacolo delle linee di Cuneo e del maestoso Viadotto Soleri è un
paesaggio da cartolina, anche in una giornata così grigia ed indefinibile come
oggi. Trovo le frecce che mi guidano verso una parte di Cuneo a me ancora
sconosciuta: i campi sportivi di via Parco della Gioventù. Due gentilissimi
personaggi della Protezione Civile mi spediscono diritta al punto di consegna
dei pacchi gara, che poi è anche il piccolo bar: ecco, un buon posto per
abbandonare la bici, ci sarà gente tutto il giorno qui, e c’è anche la tenda
dei militari. In quattro e quattr’otto, i miei dubbi sono fugati: ritiro il
pacco gara e scopro che c’è anche un ampio locale spogliatoio, dove potrò
lasciare lo zaino. Così, in men che non si dica, cambio aspetto: maglietta,
pantaloncini corti, scarpe da corsa, zainetto sulle spalle; numero 217, mi avvio verso la scalinata che
porta su, verso il centro città, verso Piazza Galimberti. Con un occhio di
rimprovero ai podisti che, a dispetto del loro nome e del loro ruolo, si
imboscano nell’orrendo ascensore. Mamma mia che obbrobrio… Proprio
necessario?

Piazza Galimberti è già in fermento, e non sono ancora le nove. Gente
indaffarata a tirare su due o tre archi gonfiabili, atleti che già
corricchiano, si scaldano, si stiracchiano. La mia prima missione, dopo aver
dato uno sguardo reverenziale tutt’intorno alla piazza che per me è la più
bella al mondo, è il raid alla Panetteria Buschese: si sa mai che sia aperta anche
la domenica mattina… No, mannaggia, purtroppo non lo è, o per fortuna,
altrimenti ne sarei uscita gonfia come un pallone. Tento un paio di vasche in
via Nizza, un occhio svogliato alle vetrine, un altro a caccia di banconi di
pizze & focacce… Macché, nulla di nulla, il coprifuoco; tutto chiuso,
anche la maggior parte dei bar.
Torno in piazza, addocchio una panchina, mi stiracchio un po’ anch’io: non
certo perché pensi che possa essere utile, solo per ammazzare il tempo. Tira di
qua, stendi di là e butta l’occhio a destra ed a manca. Mi fa ridere,
poveretta, una madama anziana a cui evidentemente manca qualche venerdì: mi
avvicina, tutta preoccupata, mi parla in Piemontese, chiedendomi se tutti
quelli che si trovano nella piazza debbano correre. Lì per lì le rispondo di
sì: allarmatissima, mi spiega che Io ho più di settant’anni, non ce la
faccio a correre, ho già corso abbastanza nella mia vita! E poi qui c’è tanta
gente anziana che non può mica correre!. Trattengo a stento le risa, la
tranquillizzo: Ma no… Solo quelli vestiti da corsa devono
correre. Ancora qualche giro intorno alla piazza; mi sposto al sole; qui
ferma ho freddo, nonostante la giacca. C’è gente che è qui da un’ora
abbondante, in canottiera e basta; in effetti, sono l’unica che si sia portata
appresso lo zainetto. Ma che importa… Io ho bisogno della mia copertina di
Linus, del mio carapace a marchio Camp, della mia giacca impermeabile anche se
oggi pare proprio che non pioverà.

Quando finalmente apre la griglia di partenza, alle dieci meno venti, mi
c’infilo quasi subito: non certo per spirito agonistico, ma solo perché fuori
il tempo non passa più. Da dentro, sento già l’atmosfera… E mi rassegno, solo
qui, a togliere la giacca.
Mentre mi guardo distrattamente intorno, la folgorazione. Jeans e giacca
gialla, berretto con visiera in testa… Lì, tra il pubblico, è Marco Olmo!
Nientemeno… La tentazione di andare a salutarlo è fortissima, ma a che
titolo? Non gli ho mai rivolto la parola e nemmeno oserei farlo; cosa potrei
dirgli io, che non abbia già sentito mille volte da chiunque? Ma no… Gian,
lascia perdere, lascialo tranquillo, non essere importuna. Mi accontento di
partecipare al fragoroso applauso che lo accoglie sul palco, ben più caloroso
di quello che tocca al Sindaco, poverello! Del resto, con una figura quasi
mitica come quella di Olmo non si può competere.

Al Sindaco tocca il conto alla rovescia: con tanto di sparo, in un attimo siamo
già partiti. Quanti saremo? Cento, centocinquanta, non saprei. Personaggi di
tutti i generi, più o meno in forma, abbigliati con capi più o meno tecnici e
colorati. Non posso fare a meno di apprezzare subito questa partenza così
tranquilla: fin da subito, c’è gente intorno a me che si dedica con più foga
alla chiacchiera, che non alla corsa. Smanio per trovare subito il mio punto di
riferimento, qualcuno che mantenga un’andatura regolare, tranquilla, da poter
seguire senza pensare.
Un breve tratto di asfalto e poi, in discesa, si entra nel parco, lungo una
strada sterrata. Come sempre, sono già nelle retrovie, ma non me ne preoccupo:
l’importante è dosare le forze; 42 km
possono essere terribilmente lunghi. Sterrato e veri e propri sentieri, con
tanto di fango, pozze residue dai recenti temporali, ciottoli tondi di fiume;
corriamo ora in mezzo a prati, ora tra la vegetazione fitta, con tanto di rovi
a minaccia dei polpacci. Non è che ne sia proprio felice: comincio a capire
cosa sia, un’ecomaratona, ed il mio primo pensiero è che, a me, correre su una
superficie diversa dall’asfalto non è mai piaciuto. Sarà anche vero che è meno
traumatico per le giunture, perché l’appoggio è più morbido, ma io rischio di
inciamparmi ovunque, ancor più se vado di fretta.
I passaggi in mezzo al bosco mi nascondono la vista di chi mi precede e mi
danno l’idea di essere completamente sola, ma non è così; non appena guadagno
qualche metro di visibilità, mi accorgo che un buon gruppo è sempre lì davanti,
a pochi metri. In particolare, i due podisti che corrono in coppia e che ho
individuato come punti di riferimento. Corrono più di me, ma ai ristori si
fermano, e lì li riacchiappo. Già, i ristori: acqua, sali, the, Coca Cola;
frutta secca, banane e crostata dall’aspetto molto appetitoso, che però non ho
voglia di assaggiare; meglio ripiegare su qualcosa che non impasti la bocca.
Per ora, mi basta il miele che mi sono portata dietro, quindi bicchiere di Coca
e via.
C’è persino un po’ di pubblico, gente in bici ed a piedi, che applaude ed
incita. Corriamo a tratti proprio accanto ad un fiume, che, a naso, potrebbe essere
il Gesso, visto che, secondo i miei incerti calcoli, lungo la Stura passeremo
più avanti. L’alternarsi continuo di salitelle e discese non permette al cuore
di assestarsi su un ritmo costante, ma, se non altro, dà alle gambe un po’ di
respiro; non corro il rischio che i muscoli si irrigidiscano ripetendo sempre
lo stesso movimento. Però, km 15, km
20, devo rallentare un po’, perché sto esagerando: ora sì, mi sembra di star
bene, ma una mezza maratona è ancora lunga, lunghissima.
Ogni tanto mi sorpassano gli angeli custodi della corsa, muniti di mountain
bike e bandierina: che assistenza! Un vero lusso, e tutti sempre sorridenti,
disponibili.

Sento la faccia polverosa, incrostata di sale: effettivamente, nella
concitazione dell’arrivo a Cuneo in bici e nella fretta di spostarmi verso la
partenza, in Piazza Galimberti, non ho nemmeno pensato di sciacquarmi un po’ la
faccia. Magari, se più avanti vedo una fontanella…
Riprendo più o meno consapevolezza dello spazio quando la strada sterrata ci
porta dritti verso il ponte basso: per un attimo, stento a riconoscerlo; eppure
sì, è lui, e appena dietro si vede già il Viadotto Soleri. Impressionante: più
mi ci avvicino, più gli archi ed i pilastroni si fanno imponenti, maestosi;
nulla a che vedere con quelli della nuova strada, credo di poterla chiamare
circonvallazione, costruita più avanti. Archi immensi che mi fanno volgere il
naso per aria, a serio rischio di ruzzolone. Le mie due lepri sono sempre lì,
poco più avanti, sempre un po’ più vicine. Uno dei due soffre un po’, l’altro
allunga e poi si volta.

Troviamo un ristoro in un breve tratto di asfalto, poi si inizia a salire. Ed
anche a preoccuparsi, almeno per quanto mi riguarda. Sento all’improvviso una
stanchezza esagerata, le gambe che si induriscono; corro, corro, ma chissà
ancora per quanto? La salita, dapprima leggerissima, è logorante, ma non posso
certo pensare di mettermi al passo, già qui. Il 25° è passato da poco… Dai,
Gian, sono ancora 17 in
fondo. E’ più o meno come se tu uscissi adesso di casa per uno dei tuoi giri
lunghi, solo che esci con un po’ di fiacca addosso. Quante volte t’è successo?
Ebbene, non hai mica rinunciato, giusto? E allora vai, forza.

In un tratto di rettilineo, incrocio due assistenti in mountain bike e, subito
dopo, una specie di missile con le gambe: ecco il primo! Strano, però. Non ho
idea di che ora sia, e nemmeno lo voglio sapere, ma ho la sensazione che sia
già tardi; vero che si tratta di una corsa molto più impegnativa di una
tradizionale maratona, ma come mai i primi passano qui solo adesso? E di strada
da fare ne hanno ancora un po’! Altri missili a ruota, uno, due, poi a
gruppetti, sempre più gente man mano che procedo. In questo tratto, il percorso
è andata e ritorno. Bisogna stare attenti a non intralciare la traiettoria di
chi arriva incontro, ma anche a non storcere malamente i piedi tra buche e
sassi, che qui certo non mancano. Che invidia per questi fenomeni che tra non
molto saranno oltre l’arco d’arrivo… Lunga serie di soli uomini, poi la prima
donna; è tutto un incitarsi a vicenda, un urlo, Bravo, cacciato
fuori a forza anche se il fiato che resta è poco, non va sprecato. Qui le rampe
sono sempre più ravvicinate ed anche cattive, tanto che affrontarle di corsa
diventa quasi un punto d’onore. Io ci provo, ma sento di essere al limite;
chissà se e quanto reggerò ancora, così. Mi rincuora il fatto che, pian piano,
raggiungo e supero qualche avversario, qualcuno che forse ha speso troppo nei
primi chilometri e adesso paga gli effetti del dislivello. Vero, non si può
certo dire che 425 m
in 42 km siano
tanti… Non lo sarebbero affatto, se si trattasse di camminare, ma lo
diventano eccome, se si vuole a tutti i costi correre. E’ una pena: cerco di
distrarmi, di pensare ad altro, ma il cuoricino fa male, come se un oggetto
appuntito premesse contro il petto; respiro a fondo ma l’aria non entra,
attacco le salitelle solo per poi prendere un po’ di fiato nella successiva
discesa. Ancora sentiero, buche e sassi, curve secche ed il canale
d’irrigazione che scorre accanto, impetuoso, d’acqua limpida, verrebbe voglia
di fermarsi e buttarci le mani, la faccia. Peggio mi sento e più cerco di
correre, quasi a voler mettere fine a questa fatica insopportabile; meno male
che c’è un punto di ristoro… Una scusa per un bicchiere di Coca e qualche
passo più lento. Per la verità, le due rampe successive le affronto al passo:
inutile, sono troppo ripide; se anche corressi, non ne avrei beneficio in
velocità e mi massacrerei inutilmente i muscoli. Quel che conta, però, è che le
facce che incontro adesso, di quelli che han già superato il giro di boa, sono
sfatte e stravolte dalla fatica, più o meno come immagino sia la mia: significa
che non sono più lontana. Lontana da cosa, poi? Dal punto in cui si torna verso
Cuneo, mancano ancora più di dodici km… Non importa, è uno dei tanti
traguardi intermedi. Ci arrivo e già mi sento più leggera; schizzo indietro,
gambe in spalla, anche se è l’euforia a farmi credere d’essere tornata
pimpante; le gambe, poverette, fan quel che possono. Incontro gli stessi che ho
superato prima, ed ancora parecchia gente al seguito; toh, non sono nemmeno poi
così mal messa come posizione, voglio dire, può darsi che io non arrivi proprio
ultima. Ma che importanza ha? Conta arrivare…

Il sole è più caldo adesso; la sete si fa sentire. Un po’ di miele, ancora un
bicchiere di Coca al ristoro, poi via, si sa che una stessa strada, percorsa al
ritorno, sembra sempre più breve rispetto all’andata. Pian piano riemergo dal
fitto della vegetazione; si torna verso Cuneo. La mia lepre ora è un podista
con la canotta rossa: dei due corridori che inseguivo prima, uno è rimasto un
po’ indietro, l’altro ha proseguito per conto suo. Incrocio l’ultimissimo
concorrente, scortato da due assistenti in bici, poco prima del cartello del
35° km. 35… Fantastico Gian. Ancora 7, solo più 7. Come il giro di corsa che
fai in pausa pranzo quando hai proprio poco tempo. Ce la fai, sicuro che ce la
fai. La canotta rossa è sempre più vicina; guadagna qualche passo solo quando
io mi fermo qualche secondo, proprio per inginocchiarmi ed immergere mani e
faccia nell’acqua del canale. Troppo forte la tentazione… Ma quanto possono
diventare difficili, in momenti come questo, anche le azioni più banali, tipo,
appunto, inginocchiarsi!

All’ultimo ristoro, ancora Coca ed una fetta d’arancia; qualche centinaio di
metri dopo, il podista fuggiasco è agguantato. Proseguiamo insieme ed insieme
raccattiamo qualche altro avversario: anche il secondo podista della mia coppia
di lepri… La strada, sempre sterrata, risale ancora; facciamo lo slalom tra
le anime dolenti, ma dolentissime sono anche le mie gambe, che ormai attingono
vigore solo più dalla voglia di arrivare. Chilometri eterni, su e giù ed ancora
su, ponticelli, collinette, i raggi del sole finalmente caldi, il profumo di
una catasta di legna e l’odore pesante, carico di umidità e muffa, del
depuratore. 40: quasi non ci credo, sono proprio al lumicino. Corro, perché non
si può mollare qui, ma il podista della canotta rossa ne ha più di me. Allunga
un po’, mi incita: no… Ti ringrazio, vai se puoi; io qui non ce la faccio, se
accelero combino un disastro. Le gambe sono stanche, ma è il fiato che è al
limite, il cuore come schiacciato. Dai Gian, è finita davvero, corri, non puoi
mollare qui, ma quanto possono essere lunghi due km… Sorpasso ancora un paio
di persone. Poi l’asfalto, la voce dello speaker che annuncia i nomi di chi
raggiunge il traguardo. Che ora sarà? Non ne ho idea, ma sono quasi certa che
siano passate almeno cinque ore dal via. L’ultima curva, l’arrivo, finalmente,
più una liberazione che non una gioia. Due chiacchiere con il podista della
canotta rossa, che negli ultimi 500 m
è scattato avanti per raggiungere la moglie; poi passo oltre. Solo per caso mi
volto indietro, alla ricerca di un banchetto con qualcosa da bere, ed
altrettanto per caso guardo il cronometro a caratteri cubitali, fissato proprio
accanto all’arrivo: 4h 12′. Strabuzzo gli occhi, chiedo l’ora ad un podista
accanto a me: eppure sì, sono proprio le 14.12. Beh che dire… Non è certo un
tempo fenomenale, ma è una gran soddisfazione per me che, proprio nella
migliore delle ipotesi, avrei potuto pensare di impiegare quattro ore e mezza.
In preda all’euforia, metto il telefonino alla frusta: messaggi a destra e a manca,
telefonata alla mamma… E ad Ivano, che avrebbe voluto assistere all’arrivo,
ma che mai si sarebbe aspettato, manco lui, un simile exploit.

Gli spogliatoi distano dalla zona dell’arrivo forse trecento metri, una breve
camminata che mi permette di sciogliere un po’ i muscoli. Poi la doccia e, in
quattro e quattr’otto, torno nei panni della ciclista. Un piatto di pasta,
veloce e graditissimo, in compagnia di Ivano che nel frattempo è arrivato in
bici; quattro parole, poi si riparte. Non devo lasciar passare troppo tempo:
già così, mi rendo conto che, se sto ferma in piedi, sento quasi subito
sopraggiungere quel senso di stanchezza immensa, di testa che gira, insomma, la
cotta.

Saluto il buon Ivano, che non nasconde d’essere un po’ preoccupato: Stai
attenta, non fare cavolate, non sei lucida… Ivano, quando mai io sono
stata lucida in vita mia? Gli lascio gran parte del pacco gara: nel mio zaino
riesco ad infilare solo l’asciugamano rosa marchiato Maratona di
Cuneo ed un paio di calze; il resto, lo shampoo, gli spaghetti, il latte,
i depliants e la borsa, resta tutto a lui.
Le gambe rispondono bene. Imbocco il ponte basso, arrivederci Cuneo; sotto i
raggi di un tiepido sole, in mezzo al traffico da grandi magazzini della
domenica pomeriggio, mi rimetto in strada verso casa. Lo zaino, se possibile,
ancora più pesante, i garretti che questa volta si adattano meglio al 48, un
po’ di vento, la compagnia di una bella soddisfazione. Centallo, Levaldigi,
Genola, Savigliano, Cavallermaggiore, Racconigi; insisto nel dire che la
strada, al ritorno, per qualche inspiegabile fenomeno fisico, si accorcia. Non
sento né stanchezza, né affanno, né mal di gambe, nulla di nulla. Quella
meravigliosa consapevolezza di poter fare, nel mio piccolo, tutto quel che mi
salta in mente, sapendo che il fisicaccio mi asseconderà. Infatti, poco più di
due ore e un quarto dopo averlo salutato, mando ad Ivano un messaggio:
Poco lucida, ma molto rapida… Sono già a casa!.

A questo punto posso anche accasciarmi sulla sedia in giardino… E lasciare
che le zanzare, quest’anno perenni ed assatanate, facciano banchetto di quel
poco sangue che ancora scorre nelle mie vene. Soddisfatta, come il peggiore dei
beoni incalliti, mi attacco alla bottiglia della Coca Cola, che mamma non manca
di farmi trovare. Il mio ricostituente preferito. Anche per oggi, mi sono
guadagnata la pagnotta… Adesso a spasso con Skipper! (Giancarla Agostini)

Giancarlo Costa

Snowboarder, corridore di montagna, autore per i siti outdoorpassion.it runningpassion.it snowpassion.it e bici.news. In passato collaboratore della rivista SNOWBOARDER MAGAZINE dal 1996 al 1999, collaboratore della rivista ON BOARD nel 2000. Responsabile tecnico della rivista BACKCOUNTRY nel 2001. Responsabile tecnico della rivista MONTAGNARD e MONTAGNARD FREE PRESS dal 2002 al 2006. Collaboratore della rivista MADE FOR SPORT nel 2006.