Quando i sogni diventano realtà: la Marathon des Sables di Gianlu “Sensacognission” Barbero
Il racconto di un’avventura nel deserto: la Marathon des Sables raccontata da uno dei protagonisti, Gianluca Barbero.
“Ebbene sì, dopo averla bramata per anni finalmente la fucking medal della MDS è mia!
E’ stata una gestazione lunga, la Marathon des Sables era la gara che avevo in mente sin dal 2007, quando, a ottobre, ho cominciato a correre. Ed è diventata una sorta di coronamento dei miei sogni da bambino (mi hanno da sempre affascinato le storie di avventura il cui palcoscenico era rappresentato dal deserto). L’avvicinamento è passato attraverso eventi meno traumatici (Chott marathon 2009, corsa sul lago salato del Chott el Jerid, in Tunisia; 100km del Sahara, sempre in Tunisia, nel 2012; Carrera de Baja, in Messico, nel 2013).
Il coraggio (o incoscienza, dipende dai punti di vista) di provarci davvero è arrivato solo nel 2014, quando avevo in mente di iscrivermi all’edizione del 2015 (ebbene sì… le iscrizioni vanno fatte con molto anticipo), ma il raggiungimento dei posti limite (comunque ben 1200) è stato raggiunto in tempi record (ricorderò per sempre la sensazione di vuoto quando ho appreso la notizia mentre salivo al Sass Pordoi in teleferica). Tutto rimandato di un anno e finalmente quest’anno (dal 10 al 16 aprile) l’ho corsa e conclusa!
Il format della gara è quello dell’autosufficienza totale, tranne che per l’acqua (comunque contingentata). Il tutto va riposto in uno zaino, che per una settimana diventa la propria casa, e va portato sul groppone in gara, per un totale di 257 chilometri complessivi (l’edizione più lunga della storia della MDS), che si sono sviluppati nel deserto del Sahara, nel sud-est marocchino (tra Merzouga e Zagora, per chi si intende un po’ di quei luoghi). Le tappe sono state di 34 – 41,3 – 37,5 – 84,3 – 42,2 e 17,7 km.
La mia preparazione è stata lunga e meticolosa. Oltre ai duri allenamenti con lo zaino, che via via aumentava di peso, particolare attenzione ho posto al contenuto dello zaino. Anche un etto può fare la differenza; in questi tipi di gara va deciso a priori quanto confort avere per il post gara (anche in termini di cibo) tenendo presente che più confort comporta più zavorra in gara e quindi più fatica e maggiore lentezza. Io sono partito con 6,8 kg sulle spalle, senza contare l’acqua; il minimo da regolamento è di 6,5kg.
A tutto questo si assomma la preparazione dei piedi, particolarmente sollecitati per via della sabbia che, inevitabilmente, s’infila nelle scarpe, anche utilizzando le ghette. Preparazione partita due mesi prima, ho usato quotidianamente una cremina ad hoc; quella della pelle, con lampade a go go a partire da -45 giorni dall’evento e in più saune per allenare gli sbalzi termici, visto che nel deserto fa caldo di giorno e freddo di notte, senza dimenticare le nottate passate a dormire in terra con le finestre aperte, per testare i disagi delle notti sahariane e i continui test sulla palabilità del cibo,composto in gran parte da liofilizzati per via dell’alto apporto calorico confinato in un peso ridotto. E meno male che vivo da solo! Se avessi dovuto condividere con qualcuno queste mie pazzie, ne avrei viste delle belle!
La gara.
Punti nevralgici sono stati l’enorme erg di 12 km da affrontare nella prima tappa e la salita allo Jebel Oftal nella long stage, una sorta di cima Coppi: un muro di 200mt D+ con al culmine delle corde fisse a cui aggrapparsi!.
L’aspetto agonistico l’ho sempre lasciato a margine; o parti per vincere (o quanto meno per entrare nella top ten) o conta ben poco arrivare 100° o 500°. Solo ai fini della cronaca segnalo che ho chiuso 126° assoluto e 6° italiano su quasi 1000 finisher dei 1190 alla partenza. La mia miglior tappa è stata indubbiamente la long stage di 84,3 km, che avevo messo sin da subito nel mirino, in modo tale da poterla dedicare a una persona molto speciale.
Le difficoltà in questo tipo di gara sono rappresentate oltre che dal terreno, fatto di sabbia in quantità industriali, ovviamente, a cui si assommano anche delle discrete pietraie e dalle condizioni climatiche (è stata una delle edizioni più calde, anche secondo il parere del senatore Marco Olmo), oltre ovviamente alla lunghezza delle tappe e al peso dello zaino. Ma se non bastasse tutto ciò, chiusa la fatica quotidiana, uno non può riposarsi in santa pace, ma inizia la seconda parte di giornata, quella della vita al campo. E fino a che non si prova sulla propria pelle, soprattutto per noi occidentali abituati ad agi e confort, non si può comprendere appieno cosa significhi non potersi lavare (operazione perfettamente inutile: io ci ho provato al termine della prima tappa… ma dopo 30′ dal mio repulisti ero lurido come prima, per via del vento che alza terra e sabbia… terminata la Mds credo che la sabbia faccia oramai parte del mio DNA!), cosa significhi non potersi sedere, ovviamente non c’erano sedie al campo, cosa significhi dormire in terra, cosa significhi dormire al freddo delle notti sahariane, cosa significhi mangiare liofilizzati e altre porcherie simili per una intera settimana.
Ma la magnificenza dell’ambiente circostante, lo splendore i cieli stellati, seppure nelle varie difficoltà, la magia della vita al campo, con la sua durezza che facilita la nascita di relazioni molto forti, che uno si porta dietro per tutta la vita e il sentirsi parte di una grande avventura sì, ma confinata nella massima sicurezza (siamo sempre stati scortati dai militari, che si sono tenuti a debita distanza per non disturbare; a ciò si deve aggiungere che lo staff medico era sempre presente sul percorso e in caso di urgenza c’erano i mezzi per essere trasportati al primo ospedale disponibile) ci ha ripagato con gli interessi.
E forse è proprio la vita al campo la vera Des Sables; ricorderò per sempre l’attesa per le lettere da parte dei propri cari, consegnateci la sera in tenda, sembrava un po’ di essere dei militari in guerra, lontani da casa da tempo e trepidanti nell’attesa di ricevere notizie da casa, l’aiuto reciproco nel preparare il fuoco, la sistemazione della tenda per la notte (ho avuto al fortuna di condividere la tenda con il sommo maestro Marco Olmo che, tra le altre cose, vista l’esperienza maturata in 21 edizioni corse, capiva al volo da dove si sarebbe orientato il vento, valutazione fondamentale per evitare di trovarsi la tenda scoperchiata nella notte), i racconti tra compagni di tenda sotto i cieli stellati.
Erano parte del gioco anche le lunghe attese in fila per poter avere una Coca Cola fresca, l’organizzazione ci ha premiato nel giorno di riposo e dopo la tappa Marathon finale con questa bevanda che nella vita di tutti i giorni avrei schifato, ma che in un tale contesto è diventata quasi una pozione magica, le carezze quotidiane di Giancarlo con un collirio in spray amorevolmente ci inumidiva ogni sera le palpebre piene di sabbia ed era un po’ come ricevere un bacio della buonanotte e il banchetto finale a taralli, acciughe, prosciutto e polenta taragna tra compagni di tenda al termine della tappa marathon, che chiudeva la parte cronometrata della MDS, Io sul piatto ho messo i taralli avanzati, per il resto hanno contribuito i miei fantastici amici della tenda numero 8. Finalmente abbiamo mangiato solo cibo vero un altro liofilizzato non sarei stato in grado di assumerlo!
I ricordi più forti in gara? Sicuramente l’incitamento dei bambini incrociati e dei fotografi italiani (in primis del mitico Dino Bonelli), nonchè la solidarietà tra concorrenti. Mi vengono in mente il gel che mi ha gentilmente offerto in gara Harvey, non un signor nessuno, ma il vincitore della durissima Badwater 2015, e l’aiuto reciproco con Wesley nel cercare il sentiero giusto nella parte finale, corsa di notte, della long stage, culminato con un forte abbraccio, varcata la linea d’arrivo; e dire che fino a poche ore prima manco sapevo chi fosse ‘sto americano’, sono cose che possono succedere solo in una gara ultra.
La MDS pretende rispetto e chiede tutto te stesso. Ti mette a nudo, ti spoglia del superfluo e ti fa capire quali sono le cose veramente importanti nella vita.
Io, da buon Sensacognission, le avrò capite?”
Di Gianluca Barbero (Pod. Valle Infernotto – Team Oxyburn)