Utramaratona degli Etruschi: 100 volte Finisher
Il racconto di Giancarla Agostini, che questa volta ha messo
le sue scarpe sull’asfalto della Maratona degli Etruschi.
Luci rosse che si ramificano sul parabrezza, spazzate via
con ritmo vorticoso dai tergicristallo che lavorano alla massima velocità; luci
che si attenuano e poi rinforzano, riflessi che abbagliano, nuvole di polvere e
nebbia che salgono dagli spazi tra le auto; buio. Rumori della pioggia, dei
motori, lontani. Isacco, accanto a me, alla guida da un disastro di ore e di
chilometri, non ne può più; manifesta propositi suicidi… Io no. In questo
momento, in coda sull’autostrada che attraversa Genova, in un punto non meglio
definito nel buio, su un corridoio d’asfalto e pozzanghere, inscatolata in una
gabbia di metallo in mezzo ad innumerevoli altre gabbie e sguardi esasperati e
tubi di scappamento che sbuffano, con tutti i muscoli che intonano in coro un
unico, straziante lamento, con le ossa peste e la testa stretta in una morsa
impietosa, quasi un cappio alle tempie, ecco, io qui mi sento pressappoco in
paradiso. Non ho fretta, né voglia di arrivare a casa, non ho fame, non ho
sonno, non ho freddo né caldo, non penso a cosa farò domani, non m’interessa
quel che accadrà da qui all’eternità. Solo quieta, perfetta, pienissima
felicità. Ci sono tanti modi di raggiungere la beatitudine; chi la conquista
con la meditazione, chi si attacca al collo di una bottiglia. Io ci sono
arrivata in cento chilometri.
Lascio il buon Isacco al parcheggio dei bus, a Tarquinia. Questa mattana
l’avevo pensata per conto mio: il viaggio verso la Tuscia, la gara, il rientro
a casa, li avevo già immaginati come una lunga galoppata in compagnia tutt’al
più della radio e dei miei mille pensieri contorti. Non sarebbe stato un
problema: ormai ci sono abituata, e poi a me piace, per quanto possa sembrare
strano, mettermi al volante della vecchia carretta bianca e partire, via, per
ore, vedere scorrere paesaggi e guard rail, montagne e pianure e mare, magari
uno dopo l’altro. Però, quando Isacco ha lanciato l’idea di aggregarsi ed
approfittare della trasferta per godersi un giro in bici in Lazio, non ho
faticato a cambiare idea: un viaggio in auto con lui è garanzia di sghignazzate
assicurate! Spero che oggi riesca a godersi una bella pedalata: ha intenti
combattivi!
Davanti al bus si è già radunata una piccola folla, atleti in assetto di guerra
ed accompagnatori dall’aria assonnata e, soprattutto rassegnata. La loro
giornata sarà molto, molto più pesante di quella che attende i corridori. Sono
le sette e mezza: parte il primo pullman che ci condurrà alla partenza della
corsa, a Tuscania. La quarta edizione della 100 km di corsa a piedi,
Ultramaratona degli Etruschi. Appoggio la fronte al finestrino, cullata dalla
vibrazione del motore già acceso, mentre i posti a sedere si riempono, uno ad
uno. Mi sono iscritta due o tre giorni dopo la fortunatissima avventura della
100 km Torino Saint Vincent, travolta dalla voglia di provare ancora una volta
l’ebbrezza del massacro: era l’ultimo giorno utile… Adesso, eccomi qui, a due
ore e mezza dal via. La giornata si annuncia luminosa; cielo terso, nuvole
lontane, all’orizzonte. Accanto a me prende posto John, un podista americano
trapiantato a Milano, appassionato triathleta: è simpatico, chiacchiera
volentieri, mi racconta di sé, dei suoi allenamenti, del triathlon concluso da
poco, con buon successo; della bici che ha comprato negli Stati Uniti e delle
ruote a razze che ci ha appena aggiunto… A sentir di cotanto orrore, mi
vengono i brividi: Ma sei un tamarro!, lo rimprovero. Tanti anni
trascorsi in Italia gli permettono di capirmi al volo; scoppia a ridere anche
lui ed ammette che sì, in effetti ho ragione… Ma vuoi mettere il fruscìo del
vento sulle razze?
Collinone dalle pendenze dolcissime e, a tratti, nebbia pesante ci accompagnano
fino all’arrivo, nel parcheggio di Tuscania. Arrivo per il bus, ma partenza per
noi che ci stiamo sopra. Mancano poco meno di due ore al via: giusto il tempo
per compiere quelle poche indispensabili operazioni, ritirare il numero di
gara, scovare una panetteria e procurarmi un ettaro cubico di focaccia. Vado,
letteralmente, a naso: ho captato un intenso effluvio di pane fresco; lo seguo,
supero una scalinata, svolto nella via e mi trovo di fronte ad una vetrina,
piccola ma invitante, tutta appannata, a proteggere un bancone stracolmo di
ogni leccornia. Mi ci tuffo, a mò di coccodrillo; riemergo dal negozio
brandendo un’abbondante porzione di focaccia al pomodoro, unta, bisunta,
disgustosamente buona. Si può dire che, con questo, io abbia completato
l’ideale percorso di avvicinamento all’Ultramaratona, iniziato ieri con sei ore
di convegno sullo scudo fiscale, pranzo e cena raffazzonati alla meno peggio,
sette ore di viaggio in auto e poche ore di nanna, sempre in auto, nel
parcheggio della stazione di Tarquinia, sepolta nel sacco a pelo. Con gran
gioia del mio compagno di viaggio, a cui è toccato lo stesso ingrato destino.
Solo a pochi minuti dal via, trovo un angolino di sole ed il coraggio di
togliermi la giacca. Sono l’unica che correrà con lo zainetto, a quanto pare.
Ma lo zainetto è la mia coperta di Linus, non posso farne a meno. C’è dentro
l’essenziale: la giacca da pioggia, perché oggi nel pomeriggio è previsto un
peggioramento meteo; il mezzo rotolo di papiro egizio per le emergenze; il
portafoglio, il telefonino, qualche barretta, nonché l’immancabile scorta di
farmacia varia. Natalina, altra irriducibile delle grandi sfaticate a piedi, mi
prende in giro: Ma ci sono i ristori!. Lo so… Ma è più forte di
me, io devo viaggiare con la mia piccola scorta di tranquillità appresso. E poi
questo zainetto non dà alcun fastidio; è leggerissimo, fissato con i
cinghietti, non si muove.
Il gruppone dei corridori, o per meglio dire degli aspiranti suicidi, si riunisce
nel viale appena fuori le mura. Qualche volto noto senza nome, qualche nome
noto; c’è anche un curioso personaggio, non proprio filiforme, con una folta
barba grigia, una parrucca blu elettrico ed un gonnellino rosso. Saremo un
centinaio di persone, più o meno. Mi avvicino alla partenza con la stessa calma
olimpica che mi ha accompagnata nei giorni scorsi. Ancora stamattina,
riemergendo dal sacco a pelo, Isacco mi ha chiesto se fossi nervosa: no…
Proprio no, per niente. Non sono preoccupata, né agitata, nulla di tutto ciò.
So solo che sarà una fatica lunga, lunghissima, e non è detto che vada a buon
fine. Una 100 km non si può dare per scontata. E’ vero, tre settimane fa ho
concluso la Torino Saint Vincent, ma questo non significa nulla; so bene di non
essere preparata per questo tipo di gara, so di essere troppo pesante, troppo
disordinata nell’alimentazione ed in generale nella vita di ogni giorno, e poi
so di non poter contare troppo sulla mia testaccia ballerina. Certo che, se
riuscissi a finire…
Breve intervista a Giorgio Calcaterra e Monica Casiraghi, i vincitori delle
scorse edizioni: poi, senza troppi fronzoli, il conto alla rovescia. Via, in un
attimo mi ritrovo a correre: parto, trascinata dalla piccola folla; asfalto e
poi un po’ di pavè, per il breve anello turistico entro le mura di Tuscania, a
disperdere la colonia di gatti di ogni età e colore che poco prima avevo
incontrato passeggiando nell’attesa; poi un altro arco in pietra e siamo fuori;
asfalto, la strada, il viale. L’avventura comincia qui, con il tifo di pochi
curiosi usciti fuori dai negozi, dalle officine, addirittura dalle scuole.
Un’intera fila di bambini in grembiulino azzurro e rosa.
Il lungo viale rettilineo lascia correre i pensieri. Non saranno più cento i km
che mi attendono; saranno novantanove, novantotto. Un’enormità. Già, ora le
gambe girano fresche, riposate, pimpanti; posso permettermi di guardarmi
intorno, godermi il sole. Un panorama insolito, questo di colline tutte uguali,
tonde, deserte di case e di vegetazione; la terra scura è il colore che domina,
oltre all’azzurro immenso del cielo. E già inizia la litania: piano, Gian, per
favore, vai piano. Son pochi, quelli già fuggiti via e scomparsi alla vista.
Tanti corrono con un ritmo molto simile al mio; manteniamo più o meno la stessa
posizione reciproca. Tuscania alle spalle, viaggiamo scortati dalle moto e
dalle auto dell’organizzazione, che talvolta riescono a fatica ad ottenere il
rispetto della chiusura della strada. Agli incroci, Carabinieri e Vigili Urbani,
oltre a sentinelle volontarie, vegliano sul nostro passaggio. Primo ristoro,
bicchiere di acqua e sali e qualche passo di camminata per trangugiarne il
contenuto: lo ha detto anche Calcaterra poco fa; mai saltare i ristori. Non ci
penso nemmeno; la strada è molto, molto lunga.
Il primo tratto di strada, diciamo per i primi trenta km, è tutto fuorché
pianeggiante; la strada sale dolcemente ed altrettanto dolcemente scende, forma
ondulazioni continue, che, se da una parte sono un vero sollievo perché spezzano
il ritmo, dall’altra ingannano, spingono a correre laddove ci vorrebbe un po’
di cautela. Infatti a me sembra di star bene; sento lo sforzo dei muscoli, ma
non rallento, non ora, perché, come sempre, la salita mi avvicina un po’ ai
fuggitivi, mi dà fiducia, e pazienza se poi la discesa ristabilisce gli
equilibri. Il sole oggi concede un meraviglioso tepore, tanto che i guanti e la
fascia in pile per le orecchie finiscono quasi subito nello zaino.
Ho già individuato qualche punto di riferimento tra i colleghi; qualcuno che,
più o meno, ritrovo sempre nei paraggi e che controllo con un occhio, l’altro
distratto ad ammirare i bellissimi casali in cima ai mammelloni, le chiazze
bianche di greggi di pecore, le insegne di innumerevoli affittacamere appese a cancellate
che racchiudono veri e propri gioielli di giardini. Penso all’ambiente delle
Langhe, quello che ormai conosco come le mie tasche; colline anche quelle, ma
più popolate, sfruttate, e più aspre, ripide, irregolari. Qua si vedono spazi
immensi, aperti, deserti. Secondo ristoro: il cartellone del km 10, più alto di
me. Da un ristoro all’altro, Gian. Ancora novanta km: no, in realtà ancora
cinque, fino al prossimo ristoro, e poi ancora il prossimo, e quello dopo.
Corro da un po’ accanto ad un podista con la maglia verde ed i pantaloni ¾,
come i miei. Non mi spiacerebbe scambiare quattro chiacchiere, ma non oso
disturbarlo; ha le cuffiette nelle orecchie. Curioso: si corre l’uno accanto
all’altro e nemmeno ci si guarda in faccia, ciascuno perso nell’immaginare la
propria avventura, ciascuno concentrato sulla propria fatica. Gli altri sono un
contorno, come gli alberi, come i campi, nulla più. Ma il ghiaccio alla fine si
rompe: galeotto il profumo di braciolata che fugge dal giardino di una bella
casa. Io sono vegetariana, ma questo mi fa venire una gran fame…
Sono vegetariano anch’io!. E così scopro di avere per compagno di
viaggio un vero appassionato di cani, al punto da averne raccolti venticinque,
più altrettanti gatti, quasi tutti trovatelli malconci e bisognosi di cure.
Cani di tutte le taglie, le età, le condizioni, perché è incredibile quel
che ti danno quando ti guardano negli occhi… E’ vero, penso ai miei due
patatoni pelosi a casa e so che il mio collega podista ha ragione da vendere.
Resto a bocca aperta e lo tempesto di domande, tanto che un po’ di chilometri
se ne vanno senza che io me ne accorga. Il primo quarto di gara: ancora tre
volte quel che abbiamo già alle spalle… Tarquinia è lassù, proprio davanti a
noi; infatti, poco oltre il km 25, c’è la prima divisione dei percorsi; gli
atleti che corrono la gara da 30 km, abbinata all’ultramaratona, tirano dritto.
Per loro la sfacchinata è bell’e finita. Noi della 100 km svoltiamo invece a
destra. Puntiamo al mare.
Qui mi ritrovo, per un po’, sola. La strada s’appiattisce. Mi rendo conto di
aver commesso il solito, stupido errore: sono partita troppo forte. Anzi,
troppo veloce: se mi sentisse Isacco, mi correggerebbe, perché la forza
si misura in Newton ed è…, insomma, è un’altra roba rispetto alla
velocità. Agli ordini. Troppo veloce. Trenta km in poco più di tre ore, almeno,
questa è l’informazione che ha incontrato per caso il mio orecchio al tavolino
del solito ristoro. Avrei fatto volentieri a meno di saperlo. Troppo veloce: non
è solo questione di matematica; è che le gambe sono già indurite, i doloretti
al torace sono sempre più insistenti. E’ il petto che fa male, quella solita
sensazione di peso sul cuore, di torace che sembra costretto in una fasciatura.
Continuo a correre, ma riduco la falcata, mi sforzo di rallentare un po’. E’ un
combattimento: 15 ore di tempo massimo, ce la farò, se dovessi rallentare? E se
dovessi mettermi a camminare? No, camminare no, non avrebbe senso. Se anche ce
la facessi, formalmente, entro il tempo limite, impiegherei un’eternità.
Settanta km in queste condizioni. Settanta, ancora; due volte e mezzo quel che
ho corso sinora. Non ci devo pensare. Devo pensare ad altro. Il panorama qui
non aiuta; meglio pensare a stasera, quando ce l’avro fatta, quando tutto sarà
finito. Oppure no, perché non sono affatto certa che ce la farò, e allora non
devo pensare all’arrivo, non devo illudermi. Scavo alla ricerca di
qualcos’altro nella mente; il lavoro, persino il convegno di ieri, lo scudo
fiscale, la regolarizzazione, il rimpatrio, la dichiarazione riservata; il
relatore che parlava a braccio, con marcato divertente accento romanesco, e la
gente intorno a me in platea, pochi, tutti professionisti, tutti troppo
eleganti, lontani mille miglia da me. Hanno proposto e discusso problemi che io
nemmeno pensavo potessero esistere… Ed io non ho osato partecipare al
rinfresco di pranzo, perché lì in mezzo mi sentivo proprio un pesce fuor
d’acqua, e mi sono ritirata nella quiete della mia Opel, a sbafare pane ed Asiago
ed a pensare al viaggio. Già, il viaggio, lo scambio di messaggi, la fuga
dall’Auditorium della BCC di Roreto, l’appuntamento con Isacco a Cuneo, appena
oltre il ponte basso; la sua sorpresa nel vedermi scendere in tenuta da
convegno, Ma come cacchio ti sei conciata?, il primo autogrill per
far sparire i tacchi e mettere su le scarpe comode, le vecchie scarpe da corsa
in montagna, quelle che ormai perdono la suola per strada, ma sono tanto tanto
comode. Respirare è difficile; le mani, le labbra formicolano, mi manca l’aria.
Marca male questa volta, Gian.
Una breve risalita apre alla vista un panorama stupendo sulle colline che
digradano verso il mare: già, quello scintillìo laggiù è il mare, davvero! E il
promontorio sulla destra? Forse l’Argentario? I miei vicini di corsa parlano
della Spartathlon, altra follia podistica ben più folle, la corsa da Sparta ad
Atene, una sorta di mito per gli amanti dell’Ultra; duecento e rotti km. Io
vorrei provare la Nove Colli Running prima o poi… Ma non siamo nemmeno al km
35 ed io sto male. Troppo male.
Altro punto di ristoro, si svolta a sinistra. Questo dev’essere l’inizio del
famigerato circuito. Già, perché i primi 35 km sono in linea; poi la corsa
s’infila in un circuito da 14 km da ripetere per ben quattro volte. Una sorta
di triangolo ideale, con gli estremi rappresentati da tre punti di ristoro; il
conteggio dei giri, però, inizia al ristoro poco oltre il km 40, cosicché c’è
un tratto, quello che percorro per la prima volta tra il km 35 ed il 40
appunto, che dovrò sciropparmi per ben cinque volte. E già di per sé il
circuito è una vera tortura per la psiche, se non si ha l’attitudine del
criceto a correre nella ruota. Figuriamoci poi se tocca sorbirsi i cartelli
chilometrici di tutti i giri: ho passato da poco il km 35 e vedo, poco dopo, il
km 94, e poi il km 80… Già, proprio perché di qui si deve passare più volte.
Terribile. Mi si para davanti la consapevolezza che avevo finora respinto; c’è
ancora una dannata quantità allucinante di chilometri! Un cavalcavia ripido sul
serio: eh no, qui meglio non fare fesserie. Salgo al passo; riprendo a correre
una volta in cima; scendo, raggiungo finalmente l’agognata meta intermedia del
km 40. E continuo a non stare affatto bene. Al successivo punto di ristoro, i
volontari mi comunicano che sono quarta. Ma non ha alcuna importanza, Gian.
Devi ficcarti in quella testaccia che la classifica non esiste, gli altri non
esistono. Hai ancora davanti a te una volta e mezza la distanza macinata finora
e sei parecchio stracciforme. Non puoi pensare, a meno d’essere impazzita
completamente, di mantenere fino alla fine l’andatura che hai adesso, non puoi
pensare di difendere una posizione. Tu devi solo arrivare. Chiaro? Arrivare
alla fine, punto e basta.
Le gambe sono dure come i chiodi, nonostante abbia già ceduto ad una pastiglia
di Muscoril. Non posso dire che la situazione sia migliorata, forse perché
questa volta il dolore è di natura diversa, forse perché pago ancora le
conseguenze di Torino. Dolori ai fianchi, sia a destra che a sinistra, appena
sotto la cassa toracica; un dolore, in più, a sinistra, in basso, quello che di
solito si chiama male alla milza. Forti, fastidiosi, anche se non
ancora tali da rallentare l’andatura. Ho il terrore che la situazione peggiori.
Il primo giro è lungo, interminabile, un calvario, prima leggerissima
impercettibile salita, con vista sulle ciminiere e sui nuvoloni neri minacciosi
che si addensano all’orizzonte; poi impercettibile discesa. Km 45, circa, il
secondo punto di ristoro del circuito. Mi consolo con Coca Cola e crostata
all’albicocca, le uniche cose che sia riuscita ad ingurgitare finora. Mi
raggiunge la quinta donna, pimpante ed entusiasta: Silvia, si chiama. Mi
domanda, Tu sei quarta, io quinta?. No, la correggo: lei è
quarta… Infatti ingrana la marcia e se ne va; mi esorta a seguirla, correrle
insieme, ma io non posso, non adesso. Sono nel pieno di una profondissima
crisi, fisica e morale. Cammino qualche decina di metri, mentre mangio e bevo
con un minimo di calma; la guardo allontanarsi, un po’ mi dispiace, ma non sono
nella posizione di poter dare battaglia. Mancano cinquantacinque km ed io ho
forze residue per molto meno.
Il sole è sparito dietro la coltre delle nuvole. Soffia un vento incattivito e
freddo. Vuoi vedere che le previsioni meteo avevano ragione? Nel tardo
pomeriggio potrebbe piovere… Il fischio del treno, lungo, una frustata alle
orecchie. Corro, recupero qualche avversario. Noto che il divieto di assistenza
personale è stato, come al solito, allegramente calpestato: chi si fa seguire
dall’auto, chi spudoratamente si fa accompagnare dalla bici. Anche alcune delle
mie colleghe godono dell’aiuto di parenti ed amici. Mah. A me lo zaino non dà
fastidio; se non altro, sono indipendente e non devo preoccuparmi del fatto che
qualcuno stia facendo esercizio di pazienza e rassegnazione per i miei comodi.
Chiudo la zip del giacchino, medito sull’opportunità di indossare guanti e
fascia per le orecchie. Ma no… E’ ancora presto. Due leggere risalite, lungo
il tratto del circuito su strada un po’ più trafficata: è sorprendente vedere
come ogni incrocio sia presidiato da un sacco di persone in divisa; a momenti
manca solo l’esercito e poi ci son tutti! E la circolazione delle auto, pur non
essendo ferma, è sorvegliatissima: ai posti di blocco si formano piccole
colonne di veicoli che poi vengono fatti partire e scortati dalle motorette
dell’organizzazione, a passo d’uomo o quasi, perché possano sfilare accanto ai
corridori senza alcun pericolo. Tutt’intorno, piatto, ma il mare non si vede
più. Chissà dov’è…
Il km 50. Metà gara, me l’hanno anche scritto sul cartellone. Il km 50 è un
attimo di profondissima euforia; l’aspettavo con ansia… Significa che, da
qui, ogni passo sarà più vicino alla meta, che non alla partenza. Un
incoraggiamento effimero, però, perché il dolore fortissimo alle cosce, i
dolori acuti all’addome ed al torace, il cuore che sembra far fatica a battere,
e far male, sono lì a ricordarmi che questa volta forse ho fatto, è il caso di
dirlo, il passo più lungo della gamba. Breve pausa di camminata al ristoro,
secondo passaggio sul cavalcavia e conclusione del primo giro, nei pressi del
km 55. Alcuni volontari, seduti sul cassone di un camioncino che procede
lentissimo, stanno lanciando oggetti a bordo strada: sembrano piatti di
alluminio da forno… Guardo meglio: sono sì piatti di alluminio, ma contengono
candele. Vuoi vedere che, appena sarà buio, queste candele serviranno ad
illuminarci il percorso?
Ristoro e km 55. Dai Gian. Sono 45, sono ancora tanti, ma immagina di dover
fare una maratona: immagina di essere al via, solo un po’ stanca, ti è già
successo, no? Pian pianino, ce la fai, con calma. Cedo alla tentazione della
mezza bustina di antiinfiammatorio: pian piano, riesco a ridurre le dosi… L’accompagno
con una fetta di crostata e poi riprendo a correre. Ancora una volta il lungo
rettilineo con asfalto sconnesso, la ciminiera con le lucine rosse sullo
sfondo, le nuvole: il sole è già basso, nascosto dai cumuli grigi che però,
adesso, sembrano più sparsi e frastagliati. Il vento è calato, forse ci si
salva? Ombre lunghe alle mie spalle, cani che abbaiano. Un momento di puro,
intenso, profondissimo benessere: sarà la mezza bustina, sarà l’effetto
placebo, ma i dolori all’addome in pochi minuti – minuti, ore, eternità, chi lo
sa – scompaiono. Per qualche momento, mi sembra di respirare un po’ meglio,
anche se, per quanto io inspiri, ho la sensazione di non riuscire a riempire i
polmoni. E le gambe, anche quelle per un po’ sembrano penare meno. Piano Gian,
niente illusioni. Ancora due giri e mezzo. No, non pensarla in termini di giri;
pensa che mancano quaranta km. Ecco, quaranta. Un attimo fa ne avevi alle
spalle quaranta e te ne toccavano ancora sessanta; adesso i numeri si sono
invertiti. Ce la puoi fare, forse. Ristoro, passaggio sotto l’arco della
ferrovia. I due saliscendi, tanta gente intorno, anche se non è facile capire
chi sia al primo giro, chi al secondo, chi oltre. Mi torturano i cartelli che
non mi competono, quelli che, dal km 90 in poi, campeggiano ad ogni km; non si
può nemmeno evitare di guardarli… Sono giganti! Ristoro, un paio di km,
cavalcavia, un paio di km, altro ristoro. Vivo da un ristoro all’altro… E mi
chiedo se mai io sia capace di correre una gara del genere, ma in autonomia, o
anche semplicemente con meno punti di assistenza. No, non ne sarei capace.
L’appoggio psicologico dei punti di ristoro è importantissimo, non tanto per il
cibo, quanto per il senso di salvezza, anche solo momentanea; un salvagente a
cui aggrapparsi per riprendere fiato e ripartire.
Non c’è nulla di piacevole in quel che sto facendo. Sto male, sto faticando
come un asino da soma, soffro, e non posso nemmeno prendermela con qualcuno; è
tutta farina del mio sacco. Sto male, quasi a sentire nausea. Inizia il terzo
giro e sono disfatta; ancora troppi i km davanti a me, per cantare vittoria. Ma
non posso mollare, no, non fino a che avrò un filo di fiato. Non posso mollare,
perché, se mollo, butto all’aria mille chilometri di viaggio, e non potrò dire
di avercela fatta, non potrò dirlo ad Isacco che mi aspetta all’arrivo, a
Matteo che fa il tifo per me a distanza, che mi manda messaggi che non ho
ancora letto ma so essere suoi. Soprattutto, non potrò più inseguire con la
stessa convinzione le altre mattane che ho già in mente per il futuro. No no
Gian. Pensa ad altro, a quello che vuoi, ma non alla corsa, non alla resa.
Scende il buio, ma non riesco a capire che ora possa essere. E’ buio per via
delle nuvole, perché il disco del sole sembra ancora un po’ più su della linea
dell’orizzonte. Al ristoro si distribuiscono persino le lucine: ma a me non
servono, ho la mia. Incontro per la seconda volta una signora che attende a
bordo strada, coperta da un telo termico: era già qui, quando son passata nel
giro precedente. Mi incoraggia; la saluto: Certo che Lei ha una gran
pazienza! Dovrebbero farLa santa…. Scoppia a ridere, sembra lieta che
qualcuno finalmente riconosca anche la sua fatica: E’ vero! Lo suggerirò
a chi di dovere….
Sembra già notte fonda, ma è colpa dei giorni che a novembre sono cortissimi.
Eccoli, i lumini: ora sono accesi… Una lunghissima fila di fiaccole poggiate
a terra, l’unica traccia al passaggio degli atleti. Percorro i primi cinque km
del giro senza accendere la mia luce frontale: nonostante l’irregolarità del
fondo di questo tratto di strada, corro senza problemi, a passi corti e
misurati. Corro nel buio, verso il buio; intuisco altre lucine davanti a me,
seguo la direzione della linea luminosa. Km 70, quindi ancora trenta. Ancora tanti,
Gian, troppi per cantare vittoria. Però, il ristoro all’altezza del km 74
arriva, questa volta, rapidissimo. Che sia il fresco della notte che
ringalluzzisce anima e corpo? Chiedo a gran voce la Coca Cola; Guarda che
al prossimo giro non ce sta più, l’avemo finita… Eh no – rispondo
indignata – se non c’è più la Coca Cola, allora io mi ritiro qui!.
No no, c’iaavemo ‘a Coca, nun te ritirà… Doppio saliscendi, ormai
potrei davvero procedere ad occhi chiusi. Al successivo ristoro, qualcuno
esclama il mio nome… Mi volto di scatto: è Isacco! Cavoli, se solo potesse
immaginare quanto io sia felice di vederlo qui. Un viso amico, quando stai
sprofondando nel più buio dei baratri, è preziosissimo… Forse non ti salva,
ma ti addolcisce l’agonia! Scambio con lui qualche parola, mentre mangio e
percorro qualche metro al passo, e scopro con sorpresa che la voce che esce
dalla mia gola non ha niente a che vedere con il colore cupo dei miei pensieri.
Isacco mi incoraggia, Se continui così arrivi prima delle dieci… Ci
vediamo là!. Ed io rispondo con il più convinto ed accorato dei miei
Sì! Forse adesso, per la prima volta, penso che sia davvero
fatta… Forse adesso so che non mi fermerà più nessuno. Poi il km 80, altro
cavalcavia, altro ristoro. Mi sembra di impazzire… Ancora un giro, Gian. Meno
male che ogni tanto si possono scambiare quattro chiacchiere. Un giro, uno
solo. Al mio passaggio al punto di controllo, sento menzionare di sfuggita
Due giri… E salto su come un sol’uomo: Se mi dite che devo
ancora fare due giri, vi ammazzo!. Ma forse quel due è stato
una mia allucinazione… Sguardo di terrore negli occhi dei giudici; forse
perché gli occhi iniettati di sangue io li ho davvero. Brevissima ma ahimé
inevitabile pausa in bagno, poi riparto, a mo’ di caterpiller. E’ finita, Gian;
da qui saranno circa diciassette maledettissimi km. Meno del tuo giro delle
domeniche pigre di brutto tempo. Non c’è più alternativa, adesso ce la fai.
Alzo gli occhi, il cielo ora è sereno; un firmamento di stelle, fittissimo, ed
una stella sola che schizza attraverso la volta e si spegne più avanti, più in
giù. Mi torna in mente la stella cadente vista ieri sera, mentre viaggiavamo in
auto verso Tarquinia; e con questa fanno due… Le stelle sulla capoccia, gli aloni
di luce fioca che oscillano ritmici davanti a me. Raggiungo una signora con cui
avevo già scambiato qualche parola; raggiungo un altro podista, accompagnato da
un amico in bici: che forte, questo assistente; una parola di coraggio dietro
l’altra, deciso, sicuro. La frontale di chi mi segue proietta la mia ombra
sulla giacca rossa del corridore che mi precede, disegnando una figura netta,
quasi inquietante; ma ormai è la testa che viaggia per conto suo. Ora è fatta,
è fatta… Il km 90, proprio lì dove me lo aspettavo, dove già l’ho visto per
tre volte nei giri precedenti. Novanta. Solo più dieci, dieci cavoli di insulsi
chilometri. Mi si affollano in mente le espressioni di gioia più scurrili e
colorite…
Ritrovo il podista toscano, di Prato, conosciuto alla partenza; mi annuncia che
sono la sesta donna e che la quinta è a 133 m davanti a me… Che precisione!
La mia risposta, effettivamente, non è delle più educate: Chissenefrega!
Io voglio solo arrivare… Ora sì, è una lotta estenuante tra la voglia
di partire, dare tutto quel che ho, e la prudenza che ancora dice di frenare. I
dolori all’addome sono tornati, più vivi che mai; i muscoli delle gambe sono
sull’orlo dei crampi. Dieci km sono più che sufficienti a saltare ed a perdere
un sacco di tempo camminando… Io non voglio camminare, voglio solo
raggiungere Tarquinia, mettere fine a questa interminabile agonia. Voglio
arrivare laggiù, sapere che c’è Isacco che mi aspetta e che sarà felice,
davvero, anche lui, per me; ci sono poche persone alla cui stima tengo
tantissimo, e lui è uno di quelle. Voglio arrivare per prendere il telefonino,
chiamare mamma, chiamare Matteo e dire loro che anche stavolta ce l’ho fatta!
In una sorta di stato euforico, a metà tra la gioia e la voglia di piangere per
il male, passo il ristoro poco oltre il km 93. Mi precede di poco un gruppo di
podisti che procedono al passo: tra loro c’è la quinta donna. Li sorpasso,
scambiamo qualche battuta; mordo ancora il freno ma corro via, senza più
voltarmi. Cerco lontano la scia delle fiaccole; il cavalcavia, ancora, le voci
alle mie spalle; il ristoro, forza Gian, ancora un km ed ancora qualche metro
di pausa; la Coca Cola, l’ultima dose… E poi via, via, adesso senza più
risparmio, succeda quel che vuole. Negli ultimi due km e mezzo si sale,
dolcemente ma si sale; ho una motoretta alle spalle che scorta nientemeno che
me, apposta, al buio. Km 98: solo qui, solo adesso, posso dire di essere
davvero felice. Sento il sorriso che si allarga da un orecchio all’altro,
frusto le gambe,non ho più male, non sento più nulla. Una rotonda, i
Carabinieri ancora lì; Tarquinia, le sue torri, ora le ho proprio sopra la
testa. Seguo la moto ed il percorso segnato; l’ultimo, ultimissimo chilometro:
qui si sale sul serio, la strada impenna; mi raggiunge un podista, non mi
volto, non lo guardo neppure… La tensione è massima, i muscoli sembrano
volersi strappare; mi scappa un’imprecazione, Ma quando c… finisce ‘sto
ultimo chilometro?. Il podista accanto a me, How long to the end?.
Oh cavoli… Un minimo di ossigeno rianima il neurone, quel tanto che basta ad
elaborare una rapida risposta adeguata… Three hundred meters I think…
I hope!. Ci ho azzeccato: l’ultima rotonda, poi l’arco che appare poco
più avanti, l’ultimo scatto; il collega ed io sembriamo due indemoniati, ci
precipitiamo come pazzi. Un attimo dopo mi ritrovo un telo termico intorno al
corpo, una scatoletta blu in mano con la medaglia di Finisher, il flash della
macchina fotografica di Isacco sparato negli occhi, una gioia che potrei far
esplodere con più violenza di un’eruzione vulcanica.
Ci sarebbe la pasta… Ma non mi interessa, non ho fame. Via Isacco, andiamo
via, subito… Una felicità incontenibile, 11h 39′, non sarà un gran tempo ma
io l’ho davvero sofferto questa volta, minuto per minuto; mai e poi mai me lo
sarei aspettato. Le telefonate, come promesso, i messaggini, con gran gioia
della Vodafone, i saluti a chi sta ancora arrivando, la Opel, la borsa, la
cameretta d’albergo, la doccia. Ebbene sì, ho ceduto all’albergo. Aveva ragione
Isacco: Sono venuto fin qui soprattutto per impedirti di farti del
male…. Senza di lui, probabilmente avrei fatto la doccia, sarei saltata
in auto e via, a guidare fino a crollare dal sonno, e poi a dormire nel sacco a
pelo, parcheggiata nel primo autogrill a disposizione. Mi conosco… E mi
conosce anche lui!
E pazienza se la notte successiva è una tortura, se passo di continuo dalla
doppia coperta al solo lenzuolo, dai brividi alle caldane, pazienza se sono
costretta a cambiare posizione ogni pochi minuti per il male a tutto. Nel
silenzio insonne, sento solo il respiro del mio compagno di viaggio, che dorme
beato e soddisfatto dei suoi 170 km in bici tra i monti della Tolfa ed il Lago
di Bracciano, e tra me e me ringrazio che ci sia, perché sarebbe stata molto,
molto più dura senza il suo aiuto. Ascolto la pioggia crepitare sul tetto e
penso che da qui alla Nove Colli Running ce n’è ancora tanta, ma tanta, di
strada da fare. E non solo metaforica! Però chissà: comincio quasi quasi a credere
che nulla sia davvero impossibile… (Giancarla
Agostini)