100..di questi giorni
Il Gran Premio delle Regioni Piemonte e Valle d’Aosta,
ovvero la riedizione della storica Torino – Saint Vincent, 100 km di corsa, non poteva sfuggire
al racconto della nostra top writer Giancarla Agostini.
Alle otto del mattino, nella gelida piazza di Saint Vincent,
siamo quattro gatti: oltre a me, tre Carabinieri ed un personaggio in giacca,
cravatta ed un cartellino di riconoscimento al collo. Ma sono quasi sicura di
aver azzeccato sia il giorno che l’ora: poco fa, mentre parcheggiavo la fida
Opel all’ingresso del paese, ho unito il mio sconcerto a quello di un altro
podista dubbioso ed un po’ spaesato. Se siamo qui in due, è probabile che
allora siamo nel posto giusto, o quasi. Infatti, in pochi minuti la piazza prende colore, si popola di un buon numero
di emuli di Arlecchino in variopinte tute e scarpe astronautiche; un manipolo
di squilibrati con un unico intento: lanciarsi nell’esperimento podistico della
Torino – Saint Vincent.
O meglio, nel Gran Premio delle Regioni Piemonte e Valle d’Aosta 100 km: onde
evitare problemi di diritti d’autore et similia. Per quel poco che ho letto
curiosando su Internet, pare che una corsa podistica da Torino a Saint Vincent
esistesse già: nata nel 1964 per idea di un certo signor Frazzetta, ha avuto
vita fino agli anni Ottanta; poi, una sola riedizione nel 1997 ed infine il
nulla. La gara di oggi, sempre in base a quel che ho letto qua e là, prevede lo
stesso percorso, 100 km
tondi tondi da Torino a Saint Vincent, ma è nata, ahimé, per opera di
un’organizzazione che nulla ha a che vedere con la famiglia del suo primo
promotore. Da ciò sono nate le beghe che si possono ben immaginare: un nome
usurpato, l’immagine di una manifestazione sfruttata senza permesso, eccetera
eccetera. Questioni che hanno senz’altro un fondamento legale, ma che non mi
tangono: io nemmeno sapevo dell’esistenza della vecchia Torino Saint Vincent, e
non ne avrei forse mai saputo nulla se non fosse stata inventata la
competizione di oggi. E poi che diamine: se chi se ne occupava in passato di
una certa gara non ha più voluto o potuto mantenerla in piedi, che facciamo,
dobbiamo blindare il percorso e vietare che quegli stessi chilometri vengano
calcati da altri podisti per opera di un altro gruppo organizzativo?
Io la vedo dal punto di vista dell’atleta, o meglio dell’illusa che,
guardandosi allo specchio al mattino e superato lo spavento iniziale, ogni
tanto si convince di essere qualcosa di simile ad un’atleta. A me non interessa
chi organizza questa corsa, né il nome che le viene attribuito; non mi ci sono
iscritta sull’onda di chissà quale nostalgia – nell’anno dell’ultima edizione
ero ancora giovane e correvo da un paio d’anni, non certo le ultramaratone – ma
solo perché attratta dal numero tondo. 100 km: non 76, 92 o 113, proprio 100.
Ancora scottata dal tentativo della 100
km del Passatore, la mitica Firenze – Faenza,
abbandonata al km 75, ho deciso che questa potrebbe essere l’occasione per la
riscossa, o almeno per trovare la risposta ad una domanda esistenziale: sono in
grado di correre su asfalto per 100 km?
L’uomo col cartellino al collo ci si avvicina: spiega di essere alla ricerca di
un gruppo di persone che dovrà condurre a Torino; è l’autista del bus. Quel che
ignora, il poveretto, è che sta per caricarsi sulle spalle, o meglio sulle
ruote, un manipolo di soggetti mentalmente molto, molto instabili. Sì, siamo
noi; sì, dobbiamo andare a Torino, perché poi torneremo qui, ma a piedi. A
piedi? Di corsa? Ma… Rinuncia a capire, il nostro condottiero motorizzato. Del
resto, non c’è molto da capire. Nessuno può capire, se non è nei nostri panni,
nelle nostre scarpe e nei nostri cuori. Non c’è spiegazione razionale per quel
che stiamo per fare.
Il viaggio in pullman è un’agonia: a nulla vale distrarsi con il paesaggio ed
il cielo meravigliosamente blu che scorrono dal finestrino. Non posso fare a
meno di dare orecchio ai discorsi di chi mi sta intorno e, ahimé, al punto
dolente, i pronostici sui tempi di gara. Il termine massimo è fissato in 20
ore; in teoria, un tempo che consentirebbe di raggiungere Saint Vincent anche
camminando a passo spedito. A marcia, via. Ma qui si sparano temponi: 10 ore,
11, 12 al massimo… Gli angoli del mio sorrisone volgono desolatamente verso
il basso, lo trasformano in una smorfia di tristezza. Io non penso di poter
impiegare meno di 17 ore, 17 e mezza; chissà se, alla fine, troverò ancora
qualcuno ad attendermi. Chissà se ci arriverò, alla fine. Fa freddo, basta
Gian, non stare a sentirli. Dormi un po’ se puoi.
Il pullman ci scarica in una squallidissima via della periferia torinese.
All’ombra si gela, con i garretti nudi… Ci accoglie la concessionaria Fiat
Spazio: nomen omen, questo complesso è immenso! Il piazzale è
ampio, auto a perdita d’occhio; il capannone è avveniristico, visto da fuori
sembra una stazione spaziale da film; dentro è ordinatissimo, pulitissimo,
scintillante, con tanto di dipendenti in giacca e cravatta e scala con gradini
in vetro, e persino una saletta da bar in cui gli atleti vengono coccolati e
confortati – una sorta di ultimo desiderio del condannato a morte? – con un po’
di colazione. La coda per ritirare il numero di gara non è stata lunga: gli
iscritti sono 150, più o meno.
Lascio la mia borsa sul tavolo destinato ai bagagli che verranno trasportati al
km 50. Finora s’è chiacchierato, s’è scherzato; anche qui ho scovato qualche
volto noto, di persona o come scrittore sui forum; Fabrizio, Thomas, Silvio…
Indugio ancora qualche minuto al piano terra della concessionaria, per godere
di un po’ di calore, mentre intorno a me fervono i preparativi. Si mischiano
atleti e visitatori del fine settimana; in fondo, sono sogni che si confondono:
quelli del bimbo che il papà fa salire alla guida di un enorme fuoristrada nel
bel mezzo della sala, quelli del corridore che si massaggia i piedi con la
crema contro le vesciche, insulto per il bel divanetto lustro su cui si è
abbandonato. Negli occhi del bimbo ed in quelli dell’atleta brilla la stessa
meraviglia.
Entra un maturo signore in cappotto lungo che mi punta all’istante: forse gli
sembro, a torto, la più spaesata ed inoffensiva. Mi rivolge un sacco di domande
sulla gara e mi chiede insistentemente se sono allenata: dopo un evidente
sguardo di disapprovazione al mio lato B, conclude scettico: Ma tu non
arrivi a Saint Vincent…. Come no? Mi ribello fieramente, certo che ci
arrivo! E mento, sapendo di mentire, perché una certezza del genere vorrei
tanto averla, e invece no, la Val d’Aosta è un miraggio, è lontanissima, è
irraggiungibile.
Mi rassegno poi a trasferirmi sul piazzale, di fronte all’arco della partenza.
Pian piano i podisti si radunano tutti qui: meno male che splende il sole; i
raggi sia pure obliqui dell’autunno mitigano un po’ i rigori di queste mattine
d’ottobre. Ancora chiacchiere e risate, scambi di battute, mentre
l’altoparlante scandisce i nomi dei Comuni che attraverseremo e le ultime
raccomandazioni. Oggi anch’io, per la grande occasione, calzo un paio di scarpe
nuove fiammanti: il primo paio di scarpe da corsa serio in, credo, quindici
anni di corsa. Nike, e sono anche bellissime. Non sono l’unica a portare sulle
spalle uno zainetto: non si sa mai, la giacca preferisco averla con me, ed
anche il rotolo di papiro, e il portafoglio il cellulare i documenti e la
farmacia. Già, se mi perquisiscono, va a finire che mi arrestano per spaccio;
tutta questa roba qui non può essere per uso personale! Mah: a giudicare dagli
spezzoni di discorso che carpisco qua e là, mi sa che non sarei affatto
l’unica, in quel caso, a finire un galera.
La massa si sposta ancor più vicina all’arco; c’è una voce
metallica che ci chiama tutti per nome. Appiccicati l’uno all’altro, fremiamo
per il via: mi ritrovo nelle primissime posizioni, senza averne però alcuna
intenzione. Pronti, partenza… E si va!
Mi travolge un impeto di incontenibile gioia. Strani effetti fa la tensione:
eccomi in mezzo alla strada, proprio in mezzo, in un fiume di persone in un
attimo già esteso, allungato a dismisura. C’è chi è partito come se dovesse
correre i 5000 metri
in pista, ma tanti, per fortuna, sono consapevoli di essere appena all’inizio
di un lunghissimo viaggio e se la prendono comoda. Per me, quel che conta
adesso è individuare una buona lepre: qualcuno che corra ad andatura adeguata,
magari anche appena più lenta di quella che mi sentirei di poter tenere io. E
la trovo… Nei panni di un personaggio che indossa una canotta con scritto
2000 km.
Ecco. Una cosa mi consola: oggi sono parte di un esercito in cui i pazzi, ma
pazzi sul serio, sono la netta maggioranza, tanto che io mi sento piccola
piccola ed insignificante. La mia lepre, quest’anno, ha corso appunto 2000 km in 14 giorni, da Marsala a
Courmayeur e chissà lungo che tracciato. Il suo compare è un veterano della 100 km del Passatore. Io… Beh, sono
qui, ci provo.
Facce sconcertate, cupe, inferocite dai finestrini delle auto in coda, ma anche
facce stupite, sguardi interrogativi, qualche applauso, qualche
incoraggiamento. Abbandoniamo Torino, tra casermoni, capannoni, cartelloni
pubblicitari chiassosi e traffico, tanto traffico: al primo ristoro, con un
bicchier d’acqua perdo la mia lepre. Pazienza, non è il momento di tentare un
allungo. Continuo con il mio passo; respiro lungo, calma e gesso. Ogni tanto
qualcuno mi sorpassa, qualcuno s’avvicina, lo sento alle spalle, e poi si
allontana. Cinque km, poi dieci; corro calpestando la linea bianca a bordo
strada, quando c’è, di semaforo in semaforo, di rotonda in rotonda. E l’avvio,
come per ogni motore diesel che si rispetti, è come sempre penoso: stanchezza,
fiacca, tanti dubbi; il gruppone che si allontana, si sgrana, sempre più
avanti, i muscoli che faticano ad accettare uno sforzo sempre tragicamente
uguale a se stesso.
Trovo la compagnia di un podista di Cremona, che mi offre di fare la lepre: mi
metto alle calcagna, anche se sento che l’andatura è un po’ troppo sostenuta
per le mie possibilità; pazienza, proviamoci, se non altro avrò qualcuno con
cui scambiare quattro parole. Ristoranti, bar, magazzini di mobili,
supermercati: pian piano tutto questo svanisce, quasi senza che io me ne
accorga. Nel bel centro storico di Leinì, un banchetto con bevande varie: manco
a dirlo, per me c’è solo la Coca Cola. Un bicchiere veloce: non mi fermo,
riparto tra le incitazioni, seguo le frecce verdi disegnate a terra. In realtà
non è necessaria alcuna segnaletica: ad ogni minimo incrocio, uno o più
volontari, o Vigili Urbani, o Carabinieri, o Alpini, indicano la retta via e
proteggono il cammino dei podisti.
Verso Lombardore, le montagne sempre più vicine: chissà quando arriverò a
vederle come le ho viste stamattina, viaggiando in autostrada? Guidavo ed
intanto pensavo, chissà quando ripasserò da queste parti a piedi!
Cielo azzurro e l’aria si scalda un po’; sempre alle
calcagna della mia lepre, riconosco, appena fuori dell’abitato, un bivio
familiare. Sono passata di qua in occasione del Trail del Soglio: significa che
laggiù, alla mia sinistra, tra quelle cime, da qualche parte c’è anche lui,
appunto il Monte Soglio, e la meravigliosa salita che porta su in cima. Ora la
temperatura è un po’ più mite: abbasso i manicotti, apro la cerniera della
maglietta. Il podista cremonese è un veterano dell’asfalto, ma non ha
esperienza di trail, anche se vorrebbe provare. Beh ovvio, non c’è paragone;
correre su un sentiero è ben altra cosa rispetto a marciare in mezzo al
traffico, anche se qui le auto son già molto diradate. Chilometri e chilometri
di strada dritta o quasi davanti a me: passo sempre uguale, respiro sempre
uguale. Per fortuna, il saliscendi, lungi dall’essere una difficoltà, offre un
minimo cambio di ritmo ai muscoli. La strada, a mio parere, è un ottimo
strumento di educazione per la testa, perché costringe a stare lì, sempre
incollati alla stessa striscia bianca, costringe alla monotonia, alla fatica ed
anche al dolore.
Già, perché ha ragione chi sostiene che l’asfalto sia molto,
ma molto più traumatico per le povere quattro ossa del podista, rispetto al
sentiero. In realtà la questione, almeno per me, è un po’ più complicata: il
sentiero è traumatico perché io non sono capace a reggermi in piedi, mi
inciampo ogni due passi e rimedio decine di lividi ad ogni uscita… L’asfalto
logora, genera fastidi che poi diventano dolorini e poi muscoli induriti e
gonfi e poi… Bisogna tenere duro, senza sconti.
A Feletto, km 25, scopro di essere arrivata troppo presto. Non è nemmeno l’una
e mezza: due ore e poco più, per il primo quarto di gara, significa che sto
esagerando e che, se continuo così, va a finire che schiatto. Meno male che,
sulla piazza del paese, campeggia un fantastico banchetto del ristoro.
Stracolmo di ogni bene, ma io vedo solo due cose: la Coca Cola…. E la pizza!
Tranci di pizza al pomodoro e formaggio, non posso crederci, davvero non oso
crederci. E’ il Paradiso Terrestre questo!
Riparto quasi subito, un bicchiere di Coca in una mano, i
due tranci nell’altro. Spazzolo tutto con la voracità di un coccodrillo; per
fortuna, non ho problemi di apnea se anche mangio e corro contemporaneamente, e
nemmeno di digestione. Da Feletto in poi, come promesso, decido di rallentare
un po’ l’andatura: il podista cremonese non è d’accordo, dice Io continuo
finché ce la faccio. Già… Ma ci sono ancora 75 km. Troppi per azzardare qualsiasi
previsione.
Fino ad Agliè è una lunga galoppata solitaria, sempre tra i saluti e gli
incoraggiamenti degli angeli custodi della corsa, che vigilano ad ogni incrocio
e non negano una parola buona ad alcuno di noi penitenti. Quanti pensieri in
tanti chilometri. Ma non penso a Saint Vincent. Non avrebbe senso. Posso
superare i piedi con la fantasia, ma solo fino al prossimo ristoro, e da lì a
quello dopo. I ristori ogni cinque km sono un conforto preziosissimo; non ci si
sente mai davvero soli.
Da qui in poi la salita, sia pure ancora lieve, si fa sentire; Bairo,
Baldissero Canavese, tratti in leggera salita che, in qualche strappo appena
più pendente, mi costringono a rassegnarmi a camminare un po’. Me la sentirei
di correrli, già, ma me la sentirei adesso: intorno al quarantesimo km. Che ne
sarà di me tra 10, 20 e più? Non è proprio il caso di fare i galletti. Lungo
percorso su strada spesso deserta; nei lunghi rettilinei tra le gaggie, qualche
capannello di fanciulle in abiti discinti che non credo facciano parte della
Protezione Civile… E nemmeno dei punti di ristoro: come ammette, sconsolato,
un podista di passaggio accanto a me, Non credo che sarei in grado di
approfittare…. Da Baldissero Canavese si sale: parto di corsa, corsetta
leggera; resto sola per un bel po’. La strada corre lungo la montagna, accanto
a case dal sapore antico, cortili minuscoli e ballatoi; il traffico è più rado,
tante curve. Corro per un bel po’, poi mi rassegno a camminare qualche tratto;
neanche fosse una vergogna! La luce del pomeriggio, ma non saprei dire che ora
sia. Incontro proprio qui, lungo la salita, il km numero 42: poi un bivio,
ancora salita nell’abitato di Vidracco, anche qui un luogo fuori dal mondo, un
gioiellino. Mi sento bene, adesso: chissà qual è il motivo di un alternarsi
così repentino di sensazioni ed emozioni. Fino a poco fa, ero triste e sfinita.
E dire che, accanto alla salita, si godeva la vista su un bel lago. Ora va
meglio: approfitto della discesa che segue il paese, tra gli applausi caciaroni
di un buon gruppo di spettatori, per riposare un po’. Mi supera un collega, mi
raggiungono altri due, ma restano alle spalle. Curva secca a destra, si passa
sul ponte e s’arriva a Vistrorio. Salita decisiva verso Alice Superiore: un po’
la corro, un po’ la cammino; so che, in cima, troverò la mia borsa, la felpa,
il berretto per la notte. Già, la notte, perché alle sette sarà buio e, già
ora, si sente l’aria frizzante. Una certa rivalità con un paio di podisti che
mi precedono e si voltano di continuo: tranquilli… Non c’è proprio nulla di
cui dobbiate preoccuparvi. Io voglio solo arrivare…
Alice, banchetto del ristoro: km 50. La metà, esattamente la metà. Adesso,
Gian, calma, almeno per qualche momento. Fermati, mangia, bevi; apri la borsa,
prendi quel che devi. Via la maglietta con le maniche corte ed i manicotti, su
la felpa ed i guanti lunghi; passo nello zaino il berretto. Un po’ di pasta di
Fissan da spalmare nelle zone critiche per gli sfregamenti: ascelle, gambe,
piedi. Ancora qualche boccone di pizza, ancora un po’ di Coca Cola e the caldo:
hanno pensato davvero a tutto, i nostri custodi! Poi via, lunga discesa: non so
se essere contenta, perché posso tirare il fiato, oppure disperarmi per il
dolore cattivo che la pendenza infligge ai muscoli. La boa dei 50 km è andata: ora, ogni passo che
faccio più vicino al traguardo che non alla partenza. Considerazione
lapalissiana, eppure di grandissimo conforto.
La discesa offre un panorama mozzafiato sulla piana verso Ivrea e sulla morena,
quella sorta di immensa diga naturale che ho già spesso ammirato con stupore
dall’autostrada. Siamo alti; ci vorrà un bel po’ ad arrivare giù. Controllo
l’euforia: è un carburante impagabile, ma può rivelarsi un’arma a doppio
taglio. E’ vero, più di metà gara è alle spalle, ma in ogni caso non è ancora
il momento di cantare vittoria. Non lo sarà mai, fino a Saint Vincent.
Sento a lungo passi alle mie spalle: sempre più vicini, ma nessuno mi sorpassa.
Mi guardo intorno, la piana, qualche casa, qualche splendido cagnone a guardia
dei cortili, il freddo. Un’auto si avvicina; gli occupanti salutano e
festeggiano il mio misterioso inseguitore, con cui poi finisco per attaccare
bottone: è un podista torinese che condivide, pure lui, la passione per la bici
da corsa… E legge il mio blog. Ma è un ciclista sul serio, lui: reduce dalla
Parigi Brest Parigi, ed ho detto tutto. Com’è piccolo il mondo, abbiamo persino
qualche conoscenza in comune: il mitico Giaccone, ciclista folle cuneese, ed
Ivano, suo concittadino altrettanto folle e con un gran caratteraccio. E così,
chiacchierando per esorcizzare il dolore, si arriva a Lessolo, altro ristoro,
altra dose di Coca Cola e bevande varie, ancora complimenti ed incoraggiamenti.
Anche il 55° è alle spalle. E si sente, nelle gambe, si sente tutto.
Onde per cui, al diavolo i buoni propositi. Metto mano alla
farmacia, la fida bustina che trangugio per metà, al seguito di un altro buon
rifornimento di pizza. Mezza bustina è poco, ma qualcosa farà… Trangugio ed
attendo fiduciosa; non per molto, perché mi sembra già di sentirne i benefici
dopo una manciata di minuti. Effetto placebo? Forse. Ci rimetto il fegato? Può
darsi, lo scopriremo solo vivendo. Ancora salita, si cammina, il vento s’è
alzato e taglia la faccia, le parole muoiono in gola, non si chiacchiera più.
Il 60° km: una rivelazione. Ormai la mente vive di sensazioni, segue i dolori
alle gambe, i crampi che sembrano nascere e poi se ne vanno, i muscoli che ora
sembrano tacere, ora si lamentano con forza, e l’umore che segue fedelmente
tutta l’altalena.
Si corre ormai paralleli e vicinissimi all’autostrada, tanto che potrei quasi
regolarmi con i caselli. La sera scende appena; potrebbero essere le sei, le
sei e mezza: ragionando per eccesso, diciamo che ho impiegato sette ore e mezza
per coprire i primi sessanta km. Di questo passo, contando la salita e la
fatica che si accumula, potrei arrivare a Saint Vincent per mezzanotte…
Possibile? Ma no, non ha senso, e poi Gian, che importa. Quel che conta è che,
adesso, se anche tu smettessi di correre in questo preciso istante, riusciresti
comunque a raggiungere il traguardo in tempo, camminando. E’ quel che tu stessa
hai detto al tuo collega stanco, che procedeva di passo in mezzo alla campagna.
Sono di nuovo sola: del resto, a mio parere, è impossibile correre una gara del
genere in compagnia. A meno di non viaggiare con qualcuno più forte, che però
pazienta e si adatta. Io non sono capace di usare simile generosità: andare
avanti, sempre, piano ma in modo inesorabile. Baio Dora, Tavagnasco,
Quincinetto. Incredibile quanto scorrono i chilometri, anche a piedi. Il ponte
sulla Dora. salti d’acqua ed una sorta di lago artificiale, le ultime luci del
giorno, mentre corro al di là del guard-rail, su un marciapiede pieno di
ciottoli e sabbia. Oltre il ponte, brusca svolta a sinistra; chilometri e
chilometri di strada che ora riprende l’aspetto di statale: non più borghi
remoti da attraversare, ma capannoni, negozi, vetrine di esposizione. E’ quasi
buio, ma gli esercizi commerciali sono ancora aperti; probabilmente non sono
ancora le sette e mezza. Ci sarebbe il marciapiede: ma sfido chiunque, ora,
dopo settanta km di marcia, a saltellare su e giù lungo un nastro d’asfalto che
si restringe, ha gli scivoli, i crateri, costringe le caviglie ad evoluzioni
ormai insopportabili. Io scelgo la sfida della linea bianca a bordo strada:
viaggiando contromano, vedo i veicoli in arrivo e, al limite, posso io stessa
schivarli saltando sull’erba, se ce la faccio. Qui gli animi degli
automobilisti sono già molto meno accondiscendenti nei nostri confronti;
suonano, fanno i fari. Quand’è ormai quasi buio, mi fermo per aggiungere alle
bande rifrangenti anche il giacchino da lavori in corso; la luce per ora non
serve, bastano i lampioni. Mi raggiunge un collega che ho superato, e da cui
sono stata risuperata, più volte; mi propone di correre per qualche tratto
insieme. Accetto, sapendo di rischiare: è evidente che lui corre più veloce di
me, sia pure di poco; è quel poco che basta a logorare le gambe già malridotte
ed a sfinire il fiato. Però… Una bella lepre alta, bionda e pure simpatica
val bene la pena di un po’ di sforzo in più! Procedo arrancando, in più con la
rassegnata certezza che prima o poi qualche auto porrà fine al nostro strazio.
Ci fanno certe rasette… Ma noi, imperterriti, corriamo. Non c’è proprio alcun
timore che potrebbe fermarmi, adesso: sono come i pupazzetti delle pubblicità
delle batterie; finché ho energia, vado avanti, senza domandarmi perché!
Carema, l’ultimo baluardo piemontese, poi finalmente Pont Saint Martin. Mancano
ancora più di venticinque km, ma siamo in Valle d’Aosta ormai; significa che ce
l’abbiamo quasi fatta. Ristoro, ancora pizza, frutta e bevande calde, ancora
Coca Cola; anche qui, pochi istanti e via. C’è luce quasi ovunque in questo
tratto; lampioni, locali. Viavai di auto del sabato sera, grappoli di ragazzini
e meno ragazzini, fanciulle agghindate ed ipertruccate che si muovono a sciami,
borsetta in una mano, sigaretta nell’altra. Proprio mentre supero il cartello
del km 75, telefono a mammà: va tutto bene, ce la faccio, a casa tutto ok? Mi
dice che a Carmagnola piove: guardo in su, con aria preoccupata; nonostante la
luce dell’abitato, in cielo si vedono le stelle. No, per questa sera non
prenderò acqua. Donnas, nei tratti di strada senza marciapiede c’è davvero da
rischiare le piume. Corro ora in compagnia di altre due anime perse, in vista
del Forte di Bard illuminato. Le montagne, che oggi con il sole erano il nostro
sfondo, ora incombono proprio sulla testa; zampettiamo accanto alla parete
verticale. Impressionante l’effetto delle luci frontali di chi ci segue:
sull’asfalto, davanti a me, tre ombre enormi, che ballano all’unisono, come
pendoli, destra sinistra destra sinistra, mostri in marcia. Quando la strada
sale, io cedo al passo; passo spedito, tanto che i miei compari mi ribattezzano
il sergente. Più avanti verrò promossa a generale. Fagocitiamo
qualche altro corridore solo e dubbioso; superiamo qualche pazzo che non ha
pensato di portarsi né luce, né bande rifrangenti, niente… Ma è possibile?
Chiacchieriamo, per quel che si può, perché venti km sono nulla e sono ancora tantissimi;
Arnad, poi Verres, il suo imponente castello che si intuisce appena, nascosto
nell’oscurità; il cielo stellato che più non si può, senza luna, ce lo godiamo
nei tratti di trasferimento da un abitato all’altro. Le luci dell’autostrada,
gli abbaglianti di chi ci supera o ci incrocia un auto e non capisce, eppure
talvolta, senza capire, improvvisa una musichetta a suon di clacson.
Dolore, stanchezza, gambe dure, ma il morale è alle stelle. Meno quindici, poi
meno dieci. Montjovet: qui sappiamo che l’ultimo ostacolo è ormai alle porte.
Pare ci sia una salita dura, secca: per me, è un vero sollievo. Le gambe ormai
corrono solo perché le costringo, perché ogni passo è mosso da un pensiero
preciso; di spontaneo non c’è più nulla. La salita significa camminare, spedita
sì, ma camminare, risparmiare a schiena e ginocchia una parte del trauma.
Quando la strada finalmente fa un curvone verso destra, e poi comincia ad
arrampicarsi là dove i fari delle auto disegnano una lunga serpentina sul
fianco della montagna, ecco, lì basta corsa. Nel buio si intuisce una stretta
gola tra due pareti e, proprio sopra le nostre teste, un castello, almeno
credo, una struttura fortificata ed illuminata che incombe, così come le pareti
a strapiombo protette dalle reti che, si spera, dovrebbero trattenere la caduta
di sassi. Che beffa sarebbe, morire così ad un tiro di schioppo dal traguardo!
Camminiamo tutti e tre, Ireneo, Adriano ed io: ormai questa
sarà la squadra che arriverà insieme a Saint Vincent. Per la verità, Ireneo mi preoccupa
un po’; attacca a narrare nei minimi dettagli le vicende della battaglia delle
Termopili, per poi passare ad una sorta di rievocazione podistica di
quell’evento ai giorni nostri, una corsa su distanza folle che si conclude con
il bacio ai piedi della statua di Leonida. Dev’essere l’effetto della carenza
di ossigeno: i muscoli delle gambe lo richiamano tutto; non ne resta più per il
cervello. Speriamo solo che il poveretto non degeneri!
Con i primi curvoni in salita, la conversazione torna su argomenti più leggeri:
da una podista olandese che anima i ricordi di maratona del buon Ireneo, si
passa a disquisire sulla vita matrimoniale. Lui, da uomo sposato, a sostenere
di non riuscire a gestire più di una donna; io a ribattere che ok, va
benissimo, ma la donna non deve essere necessariamente sempre la stessa. E’ un
vero peccato che nel mondo ci siano uomini così ostinatamente accoppiati e
drammaticamente fedeli; insomma, in questo ambito di discussione io sono
comunistissima, accanita nemica della proprietà privata!
Cammina, cammina, il cartello del km 95 si manifesta prima del previsto.
Qualche pazzo sfreccia con il macchinone a velocità da brivido, qualche tamarro
munito di alettone ci allieta con la sua cosiddetta musica. Quando finalmente
lo spazio si allarga, s’intravede qualcosa che ha l’aspetto di un colle: ed il
gazebo con l’ennesimo ristoro, l’ultimo. Non sia mai che ci rinunciamo: Coca e
qualche biscotto, anche qui. Mi sa che sono l’unica che, in questa gara, è
riuscita a mettere su peso: non ho avuto sensazione di fame né sete, nemmeno
per un istante, mai. Si riparte, tutti e tre, ancora blanda salita; passiamo
accanto ad alcune case caratteristiche, in pietra, con i balconi in legno
ornati da cascate di gerani, tutti bigi nel bigio della notte. Laggiù, a
fondovalle, una distesa di luci: e’ quella la nostra meta? No, nel modo
più assoluto – mi risponde indignato Adriano – la nostra meta è molto più
vicina! Di qui a laggiù ci saranno sette chilometri almeno…. Già. E a
noi ne mancano tre o quattro. Un po’ di salita, poi qualche tratto di discesa,
già nel circondario di Saint Vincent; ancora volontari a presidiare gli
incroci, ancora tifo: ancora due chilometri… La discesa è violenza pura sulle
gambe perché ricomincino a correre, fitte di dolore ovunque, ma ormai è
davvero, davvero fatta. Tre ubriachi, ecco cosa sembriamo. Giù a capofitto nel
buio, accanto al Casinò; l’incrocio, il vialetto in cui ho parcheggiato l’auto:
ci passo accanto, è ancora lì. L’arco d’arrivo, lo vediamo, finalmente. Ireneo
allunga, rincorre un bimbo, poi si ferma, aspetta me ed Adriano; quel magico
istante in cui non si sente più nulla se non la gioia. Ci fiondiamo come
missili: ci passiamo sotto, tenendoci per mano. 12 ore, 5 minuti e rotti
secondi: mai, e poi mai, e poi mai ci avrei creduto, se qualcuno me l’avesse
previsto dodici ore fa. O anche solo sei. Finita, meravigliosamente finita.
Da qui in poi, è tutto leggero, tutto tinto di rosa: anche se il freddo morde
le membra fradice di sudore, anche se devo tornare alla Opel a recuperare la
borsa per la doccia, e poi andare a caccia del palazzetto per la doccia. Mentre
marcio ancora di gran carriera verso l’auto – ma sarebbe meglio dire, mentre
levito a due metri da terra – vengo fermata da un paio di gruppetti, incuriositi
da tutto il can can sportivo della serata di Saint Vincent: sì, abbiamo corso
da Torino a qui… Sì, cento km, come, in quante tappe? Una tappa sola, siamo
partiti stamattina! Sì, è andata bene, benissimo, sono felice!
La doccia è calda, lunga, gradevolissima. Solo sui bagni
avrei qualcosa da ridire: come si fa a costringere alla posizione di
sospensione sulla turca, per giunta sopraelevata, un povero podista
reduce da 100 km
di corsa? E’ un vero calvario! Almeno, mettete un paio di maniglie al muro, a
cui ci si possa appendere… Ma dai Gian, non hai diritto alcuno di lamentarti.
C’è persino il servizio massaggi, cosa vuoi di più? Massaggio gradevolissimo
per le gambe disfatte, e poi a farsi carico dell’incombenza è un gran bel
ragazzo, con qualche anno più di me anche se ne dimostra molti meno, un viso
semplice, pulito, un bel sorriso aperto ed un modo di fare molto premuroso.
Insomma, un rubacuori fatto e finito! Ma il mio cuoricino questa sera batte per
la medaglietta di finisher che ho al collo, ed anche per la bellissima tuta
Diadora con la scritta Io c’ero.
Nel locale accanto alla piazza d’arrivo, dove si consegnano
i chip, mi accampo un po’ prima dell’una: in teoria, le borse che avevamo
lasciato al km 50 dovrebbero essere qui a minuti… Invece arriveranno tra
un’ora e mezzo. Ma a me non dispiace: ne approfitto per sonnecchiare in un
angolo, assisto al viavai dei corridori che arrivano solo adesso, di quelli già
lavati e rinfrescati, gente che va e viene per consegnare il chip di cronometraggio
e ritirare il premio. Gente che entra trascinandosi, barcollando, gente
disfatta e gente felice, qualcuno non riesce più nemmeno a piegarsi, slacciarsi
le scarpe. E poi si attacca bottone con quelli che, costretti ad attendere la
propria borsa per recuperare il necessario per la doccia, si fermano qui, e con
la signorina, bella e gentilissima, che sorveglia il bancone delle cibarie.
Saluti, strette di mano con chi già conoscevo e chi ho conosciuto oggi,
racconti di passate esperienze e futuri progetti. D’un tratto appare anche il
mitico Franco Rancati: vecchia conoscenza di tante altre gare… Settanta
primavere, forse di più, eppure una roccia; incrollabile, arrivato al traguardo
in 14 ore e 45′, distrutto eppure logorroico come non mai.
Si riparte ad un’ora indefinibile, forse le tre; accompagno a Torino il
massaggiatore ed altri due podisti, un poliziotto pugliese ed un pensionato di
Avellino, entrambi trapiantati nel freddo capoluogo subalpino. Non ho sonno:
troppa è l’emozione, e poi i compagni di viaggio mi tengono ben sveglia. Da lì
poi riparto per Alessandria: per una sorta di scommessa, sono iscritta alla
Maratona… Ovvio che l’avventura vada a finire in un flop: dopo un’ora e mezza
di sonno al gelo in autogrill, in un sacco a pelo troppo leggero, imbocco
l’uscita di Alessandria alle otto. Non uno straccio di segnalazione per il
punto di partenza della maratona; in base alle poche informazioni lette sul
sito Internet, giro come una pazza, in lungo ed in largo in città e nella
campagna, chiedendo informazioni ai pochi passanti infreddoliti che scovo lungo
le vie. Arrivo trafelata a Spinetta Marengo, allo stabilimento Michelin,
imbucato che più non si può nella zona industriale: nemmeno il tempo di
cambiarmi, mi precipito a ritirare il pettorale, salto a piè pari la colazione;
mi presento al via con lo stomaco che ulula e, com’era prevedibile, dolori
ovunque: gambe e, soprattutto, schiena. A tutto ciò, si aggiunge una fitta al
fianco destro, intensa, che non sembra avere intenzione di cedere il passo.
Parto così, confusa, rintronata, dopo aver risposto in modo quasi meccanico ai
saluti di due o tre persone che mi conoscono, e riconoscono, come logorroica
scrittrice di blog. Mi sembra di essere appena piombata qui da un altro
pianeta; fatico a connettere, altro che correre…
Fino al quindicesimo chilometro, bene o male riesco a correre: piegata in
avanti, con la mano a premere il fianco, finché il dolore un po’ non si
attenua; combattuta tra la voglia di lasciar perdere tutto e l’orgoglio di
provarci comunque: Gian, ma chi te lo fa fare? Come, chi me lo fa fare, son
venuta fino qui, insomma, almeno provarci con un minimo di serietà! Ma sei
sicura che hai davvero testa oggi per soffrire così tanto? Non lo senti, che le
gambe non ce la fanno più?
Ultima o quasi, desolatamente, corro ma a passo di lumaca; corro ma vedo la
campagna e la strada deserta; mi sembra di leggere la compassione negli occhi
dei volontari che presidiano la strada, ed anche il fastidio di dovermi
aspettare; tutte sensazioni che esistono forse solo nella mia mente. Al
quindicesimo, è chiaro che la maratona non la concluderò mai e poi mai: le
gambe sono sempre più rigide, dure, nemmeno la costrizione basta a farle
correre. Inutile trangugiar medicine; adesso; sono a stomaco vuoto, vuotissimo;
mi farei davvero del male e, per questa corsa, non ne vale la pena. Alterno
qualche tratto camminando; poi, approfitto della possibilità di scegliere la
mezza maratona e taglio, vilmente, al bivio, a sinistra. Per qualche km,
accompagno un simpatico podista torinese settantenne, alla sua prima mezza
maratona; anche lui alterna passo e corsa; fino al km 20, riesco a stargli
appresso e chiacchierare. Da lì, poi, le gambe si rifiutano di correre. Dicono
basta: non c’è più niente da fare.
Rassegnata, mi incammino per l’ultimo km al passo; nello
sforzo di mimetizzarmi con il fossato erboso ed i cespugli di gaggia, arrivo al
traguardo sfilando però accanto all’arco d’arrivo, non sotto. Non mi pare il
caso di dare a questa mia mezza maratona, conclusa in ben più di due ore,
l’onore della classifica. Striscio fino alla Opel, tento un minimo
di allungamento dei muscoli, ma per poco mi trattengo dal cacciare un urlo di
dolore. Rinuncio, riparto, gemendo per il male che sento anche solo a pestare i
pedali. Viaggio breve, tormentato da sonno e stanchezza eppure tanto, tanto
felice; all’uscita di Villanova a momenti centro il guard-rail perché solo in
un estremo sforzo di lucidità riesco a ricordare quale sia, dei tre, il pedale
del freno… Anche il brivido di adrenalina lungo la schiena fa male, anche
respirare fa male. A casa mi accascio sulla sedia in giardino, nell’unico
francobollo di sole freddo, sotto gli sguardi preoccupati di mammà e dei
cagnoni che non fanno altro che leccarmi, forse cercando a loro modo di
rianimarmi. Tranquilli, tutti: un giorno di lamenti e sofferenza e tornerò come
nuova!