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Intervista a Danilo Goffi, campione italiano di maratona


Danilo Goffi, classe 1972, è uno di quegli atleti che piace alla gente che ama lo sport. Perché è un lottatore, uno che non molla mai, che ci crede fino in fondo e che sa anche vincere. Una lunga carriera la sua, costellata di tanti successi costruiti con il sacrificio e con il sudore. Un corridore che è un esempio, che lo deve essere non solo per chi affronta quotidianamente gli impegni sportivi, soprattutto i giovani, ma per tutti. Un podista che, a quasi 42 anni, ha saputo tornare grande protagonista vincendo domenica scorsa, a Milano, il suo secondo titolo di campione italiano di maratona…19 anni dopo il primo!

In esclusiva per Running Passion, Danilo Goffi racconta la sua vittoria, la sua carriera e il momento difficile dell’atletica italiana.

19 anni di distanza dal primo al secondo titolo: quanto è cambiato Danilo Goffi come uomo e come atleta in questo periodo? E quanto è cambiata l’atletica?

Ho vinto il mio primo titolo italiano di maratona nel 1995 a Venezia e il secondo, nella stessa specialità, ben 19 anni dopo a Milano. Quattro i miei allori tricolori assoluti, includendo il successo nella mezza maratona e sui 10.000 metri. Nella mia lunga carriera sportiva ho inanellato molti successi e anche qualche sconfitta: ogni tappa, bella o brutta, nel bene o nel male, mi è servita per crescere sia come uomo che come atleta. Ovviamente oggi non sono più il ragazzino spavaldo alle prime armi, ma una persona matura e più riflessiva capace di affrontare le cose con maggior responsabilità. Certo, non nascondo che nel mio DNA è comunque iscritta in modo indelebile una traccia di quella spavalderia e di quella baldanza ragazzina che mi ha permesso di tornare ad essere competitivo a 41 anni suonati.   
In questo ventennio l’atletica italiana è cambiata molto, e, con mio grande rammarico, purtroppo non sempre in meglio: mancano i grandi campioni di una volta, e non siamo riusciti ad adeguarci ai tempi; non sta a me giudicare e sputare sentenza, anzi, a mio modesto parere, credo che tendenzialmente abbiamo voluto ottenere tutto e subito, senza avere un progetto volto a costruire qualcosa di duraturo. 

Come ti sei preparato per l’appuntamento di Milano?

Con il mio allenatore, ho deciso di prepararmi per la SuisseGas Milano Marathon seguendo il classico programma di allenamento. Nello specifico, nel primo periodo ho fatto un mese di carico cui è seguita una settimana di scarico per attaccare poi con altri 30 giorni di lavoro fino ad arrivare ad una settimana esatta dalla maratona. Sono state fondamentali le varie gare intermedie cui ho preso parte, propedeutiche per testare la mia condizione e dare poi il meglio in gara; ho poi macinato molti km e ho condotto una sana vita da atleta, prestando molta cura e attenzione anche all’alimentazione.

Quali sono le sensazioni di essere campione italiano? Cosa vedi ora nel tuo futuro?

Sono molto felice di essere nuovamente Campione Italiano: era quello che volevo, e sono riuscito a diventarlo ancora. Chiaramente certe emozioni sono difficili da spiegare, ancora di più per me che ho sempre preferito non esternare troppo le mie emozioni. 
Il mio futuro è l’immediato, l’imminente, nel senso che avendo quasi 42 anni, sarebbe forse sciocco fare progetti a lungo termine. Di sicuro, voglio continuare a correre per tutto il 2015; in seguito non nascondo che mi piacerebbe iniziare una nuova avventura come allenatore e poter così mettere a disposizione dei runner tutta la mia esperienza, accumulata nel corso degli anni attraverso le varie competizioni cui ho preso parte nella mia lunga carriera

Come giudichi il momento attuale dell’atletica italiana? Quali prospettive?

Purtroppo il momento attuale dell’atletica italiana non è dei più floridi, abbiamo vissuto momenti migliori. Non siamo riusciti ad avere quel cambio generazionale che si è invece sempre ripetuto in passato e senza il quale siamo ora penalizzati sia a livello europeo che mondiale. 
Sicuramente abbiamo tanti ragazzi di buone speranze che potrebbero diventare i campioni di domani: bisogna esser bravi a non bruciarli presto e, anche se può sembrare un controsenso, è importante lanciarli nelle competizioni internazionali per farli crescere confrontandosi con i migliori. 

Perchè secondo te le bellissime maratone italiane (Roma, Firenze, Venezia, Torino, Milano…) non riescono nemmeno ad avvicinare i numeri delle grandi maratone internazionali?

Secondo me perché in Italia non esiste una vera e propria, forte e consolidata cultura sportiva: non siamo i grado di trasformare una maratona in un evento unico, un una festa per tutti che duri, magari, anche tutta la giornata, cosa che invece avviene nelle maratone internazionali quali New York, Berlino, Parigi, Boston, Londra e via dicendo. Lì la città si ferma tutto il giorno per la gara, tutti sono schierati lungo il percorso per sostenere e incitare gli atleti, dal primo all’ultimo, nessuno escluso; e, soprattutto, chi corre non è visto come un elemento di disturbo, ma come un amico per cui fare il tifo. 

In tanti anni di gare e allenamenti, quali cose ti hanno più fatto gioire? E quali ti hanno più deluso?

Nella mia lunga carriera sportiva ho vissuto tante giornate indimenticabili e, ahimè, anche qualcuna da dimenticare. 
Se dovessi fare una selezione delle migliori, senza dubbio includerei quella del mio esordio in maratona a Venezia con relativa vittoria e conquista del primo titolo italiano, nel 1995; sicuramente non tralascio poi quella della medaglia d’argento individuale ai Campionati Europei di Budapest suggellata dall’oro a squadre grazie alla mitica tripletta sul podio (Baldini, Goffi, Modica) e alla prestazione di Ruggiero, correva l’anno 1998; e, non da ultimo, quella del mio recente titolo italiano per tutti gli attestati di stima per esser riuscito a tagliare questo traguardo a quasi 42 anni, confermandomi ulteriormente un esempio di esperienza, tenacia e determinazione. 
Naturalmente ho vissuto anche momenti bui: in generale, quelli legati agli infortuni dai quali c’è sempre la paura di non riuscire a riprendersi, ma per fortuna così non è stato, anzi! Se dovessi indicare un singolo episodio, direi che la mia più grande delusione è quella di non essere riuscito ad andare a medaglia ai Mondiali di Siviglia nel 1999.

Cosa diresti a un giovane per convincerlo ad avvicinarsi all’atletica?

In tutta onestà non è facile riuscire a convincere un giovane a fare atletica, oggi. Non voglio polemizzare, ma ci sono altri sport che danno più fama, visibilità e anche ricchezza e che, di conseguenza, attirano maggiormente rispetto ad una disciplina sportiva che è comunque la base fondamentale per tutte le altre. Cercherei però di trasmettere loro tutta la mia passione e di far capire quanto sia bello correre, lanciare e saltare, spiegando loro che nell’atletica non farai mai panchina, come del resto già diceva FIDAL in una sua campagna pubblicitaria, e che con grandi sacrifici si possono conseguire risultati altrettanto grandi: nell’atletica leggera le soddisfazioni personali sono qualcosa di indescrivibile, provare per credere!

Marco Ceste