L’Editoriale del Presidente Fidal Piemonte Maurizio Damilano sullo stato dell’atletica
Siamo alla vigilia dell’inizio dell’attività in pista –
anche se qualche anteprima è già stata realizzata particolarmente in ambito
provinciale e per l’attività giovanile – che farà entrare la stagione
dell’atletica nel suo vivo. Come ho già avuto modo di dire in altre occasioni
abbiamo trascorso un inverno ricco di eventi e anche di buoni risultati per la
nostra atletica regionale.
Adesso
siamo chiamati per certi versi a tirare le somme tra quell’attività invernale,
che solitamente è propedeutica a quella estiva e non finalizzata a se stessa, e
raccoglierne i frutti con quelle prestazioni tecniche che caratterizzano la
qualità del nostro sport e del lavoro svolto in inverno.
E’
quindi il momento per far giungere un caloroso augurio agli atleti, ai tecnici
ed alle società perché questo scorcio di stagione sportiva che solitamente
denominiamo estiva possa essere ricca di successi e soddisfazioni.
Credo
sia però anche il momento per soffermarci un attimo a riflettere sulle gioie ed
i dolori della nostra atletica. Dopo i mondiali di Berlino sono stati mesi di
polemiche più o meno sottili, di iniziative più o meno importanti, ma spesso mi
è parso di sentire, leggere od ascoltare cose dette tante altre volte.
Credo
che nessuno possa nascondere che non sempre i risultati sportivi hanno
soddisfatto a pieno. E neppure si possa dire che il nostro mondo sia in
crescita in quelle fasce di età che garantiscono i risultati agonistici di
rilievo. Aumentare i numeri della categoria esordienti e di quella master non
significa obbligatoriamente una crescita dell’atletica, anche se sta a
significare che la disciplina non è in una fase di recessione totale.
Ma
neppure credo sia da gettare unicamente la croce sulla dirigenza federale. Il
mio parere è che la crisi si evidenzi molto nel nostro modello sportivo
complessivo. Una conferma è venuta dalle Olimpiadi Invernali in Canada.
Non
sono state che una ulteriore sottolineatura della difficoltà di risultati (ma
io direi di protagonisti individuali veri) palesati dall’atletica ai mondiali
di Berlino e da altri sport nei propri singoli eventi mondiali o continentali.
Il modello che per oltre 40 anni ha fatto invidia a gran parte del mondo è probabilmente
oggi irrimediabilmente vecchio.
Lo
sport mondiale è cambiato molto. Il protagonismo, e di conseguenza il prevalere
del risultato singolo, del campione personaggio, delle contaminazioni
economiche (giuste e sacrosante, ma a volte più forti del sistema) hanno e
stanno cambiando sempre più faccia al mondo sportivo.
Si
fa sport, o si decide di proseguire a farlo, spesso per arrivare a guadagnare
soldi, a risolvere i problemi della propria vita, a salire la scala del jet
set, a discapito di molti altri valori, ma soprattutto obbligando a ripensare
la distribuzione delle risorse dedicate allo sport.
A
mio parere proprio questo è il nodo del problema.
Lo
sport italiano sta continuando a percorrere una strada in parte
assistenzialistica senza trovare soluzione alla necessità di rileggersi tra
modello sociale e modello agonistico di qualità. Non abbiamo uno sport povero
economicamente, ma costretto a intervenire in troppe direzioni e quindi meno
efficacemente in quell’area in cui gli investimenti potrebbero garantire
maggiori risultati di livello. Stato e Sport lottano su fronti comuni (spesso,
ma non sempre!) ma si palleggiano ruoli e ambiti di investimento che, a mio
parere, dovrebbero essere chiariti in modo netto. Insomma: chi fa che cosa!.
Lo
sport dei giovani, quello di base per intenderci, non può sopravvivere a fatica
alle necessità dello sport olimpico, ma deve essere aiutato con più forza dagli
Enti Amministrativi pubblici (noi non siamo del tutto sfortunati in tal senso).
Sport
(qualità) e società (accesso allo sport e primo sviluppo sotto l’organizzazione
della federazione) debbono contribuire insieme a sviluppare questi ambiti. Il
resto deve essere amore per lo sport.
Lo
dico senza retorica. Deve essere il farlo per se stessi, per la passione che si
ha dentro ed allora sarà più facile non disdegnare qualche spesa in più a
favore del sistema, perché è il sistema a garantire continuità, credibilità ed
autorevolezza allo sport amato. In poche parole l’auto finanziamento tante
volte auspicato all’interno della Federazione deve essere chiaro e motivato e
non una semplice battaglia tra chi rappresenta tutti (la Federazione) e chi
rappresenta in prevalenza se stesso (chi propone eventi).
Qualcuno
dirà: ma cosa centra tutto questo con la nostra realtà? In effetti centra
molto. Il non avere una visione aperta a 360 gradi sui problemi non può
permettere di uscire da logiche ristrette ma favorisce il richiudersi sempre
più su se stessi.
E’
chiaro che oggi, vuoi per la scarsità delle risorse vuoi per le difficoltà di
proposta, si fatica tutti all’interno dell’atletica e dello sport. Però
l’autocommiserazione, quando non peggio l’egoismo per le proprie attività o
l’invidia per quelle degli altri, sono una via senza uscite.
Quel’è
la medicina per questa situazione? Se io, come altri, avessimo l’antidoto
l’avremmo già usato. Io penso servano idee veramente diverse e che tengano
conto del cambiamento sportivo in atto da diversi anni. Riconsiderare il ruolo
della Federazione stessa, del mondo societario, di quello agonistico,
organizzativo e, quanto mai necessario ed indispensabile, di quello
tecnico sono ragionamenti che tutti siamo chiamati a fare. Vi è però un
presupposto alla base: il cuore tecnico del nostro sport deve tornare
fortemente al centro degli interessi di tutti senza condizionamenti ed invidie.
Solo
risultati sportivi di qualità garantiscono solidità ed autorevolezza ad una
disciplina sportiva ed alla sua Federazione. Io pertanto credo che quanto ho
già avuto modo di dire più sopra circa il rapporto tra modello sociale e
modello agonistico qualificato dell’atletica possa essere un buon argomento su
cui riflettere.
Estratto da Piemontatletica MARZO/APRILE 2010
Maurizio Damilano – Presidente Fidal Piemonte