Running Passion | Notizie di corsa su strada e montagna / Corsa su strada  / Venice Marathon 2011: il racconto di una piccola grande impresa

Venice Marathon 2011: il racconto di una piccola grande impresa


di Tite Togni

3:27:17 Real Time, piccolo nuovo PB. Anzi due: anche nella mezza, il mio passaggio registra 1:39:50, 15” secondi prima della mia migliore mezza di poche settimane fa, a Udine. In due anni, dalla precedente ultima maratona, quella di Chicago, ho abbattutto 2 minutini. Niente di eclatante, ma è anche vero che all’asfalto dedico pochi mesi all’anno, il resto è montagna, che alla velocità non giova proprio. Non giova? Il destino volle che dovessi affrontare la maratona come una Ultra in montagna, senza Garmin, senza indicazioni di passo, ritmo, tempi parziali.

…senza Garmin,  bloccato ai primi km, quindi con cuore, piu che gambe e testa. Questo era quello che scrivevo la sera prima nelle mie intenzioni: correre col cuore. Il destino mi ha servita.

La coincidenza? Sono convinta che l’immaginazione si scatena osservando gli altri, sempre fonte di ispirazione, in positivo e in negativo. Come sempre prima di una gara, scorro le classifiche della stessa competizione l’anno precedente e mi diverto a cercare un mio sosia, un profilo con passaggi verosimili per le mie andature, poi ne cerco uno leggermente migliore e a quello mi ispiro. Cioé lo memorizzo, passaggio per passaggio. L’altra sera il mio profilo ottimale registrava il tempo 3:27:30. Praticamente tra il mio tempo ufficiale e il mio tempo cronometrico, ma è curioso che ciò sia avvenuto senza strumento di controllo del tempo, solo con le sensazioni nelle gambe. Solo?

Intanto me la sono voluta sin dalla partenza, dato che son riuscita ad infilarmi nella “gabbia” delle 3 ore con Augusto e quindi non avevo i pacer dei 3:30, ma anche dei 3:20, dietro di me e la cosa è andata avanti un pò troppo a lungo, fino al passaggio della Mezza compresa, che infatti registra una decina di secondi meno del passaggio dei pacers delle 3:20. Non ho fatto caso nemmeno al fatto che registravo il mio miglior tempo in Mezza e, come in un rifiuto programmatico di cercare un cronometro, nemmeno l’ho scorto quando era davanti a me, sul tabellone. Ascoltavo solo il respiro e le gambe.

A Mestre, alle prime curve e tra la folla del paese, non mi stupii quando fui raggiunta dai palloncini bianchi delle 3:20. Al contrario, li presi come orizzonte, da tenere a distanza sempre maggiore, ma in modo che non mi scappassero via. Nello stesso tempo entravo nel nuovo ordine di idee, quello di affrontare la salita del cavalcavia con scioltezza e agio per lanciarmi sul tapis roulant immaginario del Ponte della Libertà dove, finalmente avrei potuto stare da sola con me stessa, le mie gambe, la mia testa e il mio cuore. Un sacco di roba.

Mi sono stupita e divertita nel giocare all’elastico con quei palloncini bianchi per qualche chilometro: sentivo le gambe imitare facilmente le loro. Poi ricordo due belle ragazze più giovani, dotate di bottiglietta con manico stile trailer americano, sorpassarmi decise a stare attaccate come body guard allo Stefano capo branco. Non erano convincenti però. Le ritrovai in grosse difficoltà alla fine del ponte, verso il 36° chilometro. Una l’ho invidiata, era assistita da un amico che la incoraggiava, la sosteneva, la incitava, le portava la bottiglietta, una lepre, insomma. Per fortuna, o per origini montane confermate e approfondite nel trail, specie l’ultra trail, amo stare da sola, perché sola non sonomai: avevo deciso di impiegare i 6 chilometri lineari del ponte come una passerella di immagini positive, caratteri più che persone che mi ispirano positivo o che volevo rivisitare con calma. Nel frattempo, come uno in navigazione solitaria che imposta il pilota automatico, controllavo di non saltare le procedure essenziali per me: estrarre e ingerire la pastiglietta di maltodestrine ogni 10 chilometri, poco prima del ristoro, rilassare la mandibola, le mani, le spalle, alzare i piedi stile chi-running, tallone su, punta giù, linea del corpo in Tadasana, eretta.  A dire il vero non mi sono mai fermata ad un ristoro, a dire il vero non ho nemmeno mai afferrato una bottiglietta al volo negli assembramenti dei ristori, ma ho sempre proseguito oltre (desidero qui pubblicamente ringraziare i generosi che mi hanno passato la loro in corsa, rispondendo prontamente al mio segno).

Senza Garmin, con l’occhio esterno verso la cupola della Punta Dogana e con l’occhio interiore impegnato a sentire le gambe e i polmoni e il cuore, quel ponte tanto monotono e lungo mi è passato via in un baleno. Mano a mano che mi spingevo verso il mare, entravo dentro di me.

Le curve a gomito  e i passaggi tra le mura del porto, che segnano l’entrata sulla riva, le Zattere, la Laguna, Punta Dogana, il Canal Grande non avrànno avuto il boato dell’arrivo a Central Park dall’ultimo ponte che si sente alla Maratona di New York, ma la visione, più intimista e da quadro autunnale di un Canaletto, è più commuovente e vicina alla nostra cultura europea, con un tocco di Medio Oriente malinconico.

Da questo momento “è stato dolce perdersi in questo mare” degli ultimi 3 chilometri tortuosi e sobbalzanti tra una passerella e l’altra, dove l’unica bussola me la davano i cartelli che annunciavano a scalare i 14 ponti da superare. Sarà che a me le passerelle non sono mai piaciute, ma di Piazza San Marco ricordo solo un piccione talmente abituato alla folla che per poco non finisce sotto i miei piedi, i quali miravano solo e unicamente a tenere la traiettoria più corta e veloce possibile e quindi avrebbero fatto strage.

“Ultimo Ponte” recitava il cartello e ancora non si vedeva l’arrivo. Avanti tutta, per quel che si può, il pilota automatico del mio ritmo cerco di farlo scorrere sui ponti come non esistessero. La fatica è tanta ma viene compensata dalla consapevolezza che, a meno di fermarsi, il PB  è assicurato. Comincio ad indovinare quanti minuti ho perso su quelli che avevo scandalosamente guadagnato all’inizio, 3 secondo me, vengo per un attimo distolta da un grido da destra, un amico trailer  in agguato grida il mio nome (ma secondo me era lì per godere della nostra sofferenza sull’asfalto e per desistere definitivamente dal cimentarsi in una maratona, continuando a preferire la montagna), 4 passi su, 3 falcate in giù ed eccoci alla resa dei conti, i numeri freddi e precisi nel loro scorrere e nel loro fermarsi sull’attimo: 3:27:35. Lo stesso tempo della “sosia immaginata” la sera prima, ma con le tante variabili che rendono la stessa gara sempre diversa.

Ho limitato il danno, mi sono divertita un mondo, non ho avuto paura né nell’imprevisto, né di rischiare un pochino di giocare al limite delle mie possibilità registrate in allenamento. E ho capito tante cose nuove ancora, alcune pratiche (come azzerare la memoria dati di un garmin prima di una gara), altre strategiche (non si può segnare un PB anche al passaggio della Mezza), ma è stato soprattutto un bellissimo viaggio non nel tempo cronometrico ma in profondità, centripeto, spaziale, molto simile alla progressione della pratica yogica: si inizia con gli asana, il lavoro sul corpo con le poszioni, per poter accedere al controllo del Prana, o Energia, principlamente veicolata dal respiro. Questa, come il passaggio alla mezza,  è la porta di accesso al meditativo, alla propria zona recondita, che inizia col Prathyara, il ritrarre i sensi verso l’interno (il ponte della Libertà) seguito da Dhiana e Dharana, forme di meditazione su un punto e poi sull’atto meditativo in sé.

Mind is everything, muscles pieces of rubber” non l’ha detto BKS Iyengar o altro Guru dello yoga, ma Paavo Nurmi, uno dei Finlandesi volanti degli anni 20, 9 medaglie d’oro alle Olimpiadi e primatista dei 1500 e dei 5000 nell’arco della stessa ora.

Sempre più in profondità, sempre più nel presente, fino allo sforzo finale, che coincide con Samadhi, la beatitudine. La beatitudine di averne terminata una, di maratona, preparandola al meglio e di avere la consapevolezza di poter fare meglio alla prossima. Se e come Dio vorrà. Magari col Garmin funzionante, ma con lo stesso coach, Tito Tiberti, che è riuscito a farmi divertire con le tabelle sul piattissimo asfalto, oltre che a tirarci fuori due risultati in uno.
Namasté, Tite

Marco Ceste